LA CAVA MEGALITICA DELLA COSTA DI BRAMAPANE
La riapertura in epoca barocca per fare le pietre da selciato (clapea soli)
Sono stato informato, dal concittadino geometra Daniele Guaianuzzi, che nella Costa di Bramapane (presso Biassa) vi sono pietre che mostrano segni di lavorazione antropica. Non si tratta di pietre disposte sul crinale, come quelle da me esposte nel libro “Megaliti di crinale nelle Cinque Terre”, ma pietre disseminate lungo un ripido costone, difficili da raggiungere. Già dalla prima fotografia inviatami emergeva una scoperta fantastica: una pietra lunga, che su un lato portava delle incisioni lineari, parallele, con i valori 1 – 3 – 6, e nell’altro lato portava 36 incisioni lineari parallele! La somma dei valori di un lato porta al numero 10 (1 + 3 + 6). La somma dei primi trentasei numeri porta al numero biblico 666 (1+2+3+4+5+6+……..+36= 666), conosciuto dai più come il numero della bestia, il numero dell’anticristo. Quale sapienza numerica era circolata su quel costone? In che epoca della storia dell’uomo? In quale contesto di weltangschauung, cioè quale concetto dell’universo avevano quegli uomini che sentirono di incidere sulla durissima roccia quei valori numerici?
Sopra figura n° 1 – piantina della zona di Bramapane, cliccate sulle foto per ingrandirle e vederle in sequenza
Foto n° 2 – la pietra mostra il modulo 1 – 3 – 6
Foto n° 3 – la pietra mostra il modulo 36
Sopra figura n° 1 – piantina della zona di Bramapane, cliccate sulle foto per ingrandirle e vederle in sequenza
Foto n° 2 – la pietra mostra il modulo 1 – 3 – 6
Foto n° 3 – la pietra mostra il modulo 36
La prima cosa da fare era quella di recarsi di persona a fare un sopralluogo sul sito, cosa che fece molto piacere a Daniele. Considerati i rischi di farsi male, per una persona come me, che, pur essendo stata abituata per decenni a spegnere incendi boschivi, stava ormai traguardando la boa degli 80 anni, fu necessario calarsi in sicurezza, con una lunga corda, dalla strada che dal Telegrafo porta al Monte Verrugoli. In effetti, ciò che appariva dalla fotografia, veniva confermato dalla osservazione diretta sul sito. Mentre Daniele continuava, con grande pazienza, a fotografare tutte le pietre del costone, diventava necessario trovare un percorso epistemologico per capire il sito. A confermare che ci si trovava in un contesto di cava megalitica vi erano la testimonianza della tecnica dei fori, utilizzati per spaccare, con i cunei bagnati, le pietre e soprattutto la prova fornita dall’esistenza di una magnifica ”pietra a polissoir”. Un menhir tondeggiante, inclinato, sembra indicare la direzione del Sole che sorge dalle Alpi Apuane all’equinozio. Continuando la ricerca è emersa anche una pietra da selciato, lunga circa cm 70 e larga circa cm 30, che appariva come uno scarto di lavorazione. Ciò costituisce una complicazione, perché, per gli esperti, generalmente le cave megalitiche non vengono più riutilizzate. Una ulteriore magnifica lastra antighiaccio, da mettere cioè davanti all’entrata delle case per evitare di scivolare, magnificamente scolpita in profondità, è stata conficcata nel terreno. Sembra proprio che sia stata lasciata lì al momento della chiusura della cava (cento anni fa?) per lasciare ai posteri memoria della bravura dei cavatori e degli scalpellini che avevano dato vita ad un particolare valore del <genius loci>.
Foto n° 4 – la pietra a polissoir (foto di Daniele Guaianuzzi)
Foto n° 5 – il menhir inclinato
Foto n° 6 - pietra da selciato scarto di produzione (foto di Daniele Guaianuzzi)
Foto n° 7 – grande lastra con lavorazione antighiaccio (foto di Daniele Guaianuzzi)
Foto n° 7bis - nuovo ritrovamento pietra a polissoir (foto di Daniele Guaianuzzi)
Foto n° 4 – la pietra a polissoir (foto di Daniele Guaianuzzi)
Foto n° 5 – il menhir inclinato
Foto n° 6 - pietra da selciato scarto di produzione (foto di Daniele Guaianuzzi)
Foto n° 7 – grande lastra con lavorazione antighiaccio (foto di Daniele Guaianuzzi)
Foto n° 7bis - nuovo ritrovamento pietra a polissoir (foto di Daniele Guaianuzzi)
La tipologia delle pietre.
Trattasi di metareniti, pietre molto difficili da lavorare per la loro natura complessa, quasi mai isotrope, quasi mai omogenee (comunicazione personale di un grande petrografo), pietre che subito inducono una considerazione di fondo. Ma chi erano coloro che avevano lavorato in quella cava, per spezzare così le pietre? Gli stessi che avevano inciso quelle innumerevoli linee parallele, difficilissime da realizzare in quella durissima pietra, bravissimi intagliatori, ma anche conoscitori di leggi matematiche che sembrerebbero risalire a Pitagora o all’Antico Egitto, anziché ad una improbabile influenza della Quaballah ebraica? Di certo gli eventuali produttori di pietre da selciato, le antiche clapea soli, che nel dialetto lericino hanno dato origine al buffo termine “scc-iappasei”, utilizzate nel 1600 e 1700 per pavimentare le strade, non avrebbero potuto esternare simili conoscenze matematiche, definite come esoteriche, o alchemiche, senza essere messi al rogo. Pertanto, in termini di approccio probabilistico, applicando il Teorema di Bayes sulle probabilità composte, è da escludere che questo profondo sapere matematico sia accreditabile all’epoca storica, ma vada fatto risalire ad epoca preistorica o protostorica. Nella costa di Campiglia, cioè al di là del crinale, nei “tramonti” (cioè trans montes, al di là dei monti, dove peraltro si può vedere il tramonto del Sole sul mare) sono state trovate due iscrizioni incise nell’arenaria, che prima risultavano opache, nonostante che fossero state segnalate a docenti dell’Università di Genova già nei primi anni ’90 del secolo scorso. Nel luglio del 1993 furono anche segnalate all’assessorato alle Aree Parco della provincia della Spezia, ma senza esito alcuno. Quelle stesse iscrizioni sono state in seguito pubblicate, come opache, alla pagina 48 del mio libro “Megaliti di crinale delle Cinque Terre” (2015). Ora sono state decrittate dal prof. Adolfo Zavaroni e riconosciute come iscrizioni degli antichi Liguri. Questa importantissima scoperta è stata pubblicata nella rivista “Res Antiquae”, pubblicata in Belgio, e curata da professori dell’Università di Lovanio, presieduti dallo studioso dell’Italia antica Dominique Briquel (comunicazione personale di Adolfo Zavaroni). Occorre prendere atto che è venuto quindi a cadere uno dei grandi muri storici della cultura dominante, e cioè che i Liguri fossero dei barbari ignoranti e che non avessero lasciato alcuna traccia di scrittura! In Campiglia è inoltre stata rinvenuta una pietra di arenaria che presenta nove incisioni lineari parallele, pietra che è stata pubblicata alla pagina 38 del mio libro “La comunità di Fabiano, segni, riti e miti di Indoeuropei, Celti e Ariani sulle alture del Golfo della Spezia” (1994). La didascalia di questa pietra spiega che si tratta di una successione numerica (esattamente novi incisioni) che, se fosse in Irlanda, avrebbe potuto essere interpretata come formata da lettere dell’alfabeto di “Ogham”, divinità celtica della sapienza. Nell’esaminare questa definizione il suddetto prof. Zavararoni ritiene che non sia possibile accettare ciò perché la mancanza della linea di fulcro esclude che si tratti di alfabeto Ogham, ma l’incisione debba essere considerata soltanto nel suo valore simbolico. In termini di calcolo delle probabilità composte ciò avvalora che sia esistita nell’area una antica cultura numerico-pitagorica.
Foto n° 8 – petroglifo inciso con lettere antiche di Navone (Campiglia)
Foto n° 9 – altro petroglifo inciso con lettere antiche di Campiglia.
Foto n° 10 – nove incisioni lineari parallele in Campiglia (alfabeto di Ogham)
Trattasi di metareniti, pietre molto difficili da lavorare per la loro natura complessa, quasi mai isotrope, quasi mai omogenee (comunicazione personale di un grande petrografo), pietre che subito inducono una considerazione di fondo. Ma chi erano coloro che avevano lavorato in quella cava, per spezzare così le pietre? Gli stessi che avevano inciso quelle innumerevoli linee parallele, difficilissime da realizzare in quella durissima pietra, bravissimi intagliatori, ma anche conoscitori di leggi matematiche che sembrerebbero risalire a Pitagora o all’Antico Egitto, anziché ad una improbabile influenza della Quaballah ebraica? Di certo gli eventuali produttori di pietre da selciato, le antiche clapea soli, che nel dialetto lericino hanno dato origine al buffo termine “scc-iappasei”, utilizzate nel 1600 e 1700 per pavimentare le strade, non avrebbero potuto esternare simili conoscenze matematiche, definite come esoteriche, o alchemiche, senza essere messi al rogo. Pertanto, in termini di approccio probabilistico, applicando il Teorema di Bayes sulle probabilità composte, è da escludere che questo profondo sapere matematico sia accreditabile all’epoca storica, ma vada fatto risalire ad epoca preistorica o protostorica. Nella costa di Campiglia, cioè al di là del crinale, nei “tramonti” (cioè trans montes, al di là dei monti, dove peraltro si può vedere il tramonto del Sole sul mare) sono state trovate due iscrizioni incise nell’arenaria, che prima risultavano opache, nonostante che fossero state segnalate a docenti dell’Università di Genova già nei primi anni ’90 del secolo scorso. Nel luglio del 1993 furono anche segnalate all’assessorato alle Aree Parco della provincia della Spezia, ma senza esito alcuno. Quelle stesse iscrizioni sono state in seguito pubblicate, come opache, alla pagina 48 del mio libro “Megaliti di crinale delle Cinque Terre” (2015). Ora sono state decrittate dal prof. Adolfo Zavaroni e riconosciute come iscrizioni degli antichi Liguri. Questa importantissima scoperta è stata pubblicata nella rivista “Res Antiquae”, pubblicata in Belgio, e curata da professori dell’Università di Lovanio, presieduti dallo studioso dell’Italia antica Dominique Briquel (comunicazione personale di Adolfo Zavaroni). Occorre prendere atto che è venuto quindi a cadere uno dei grandi muri storici della cultura dominante, e cioè che i Liguri fossero dei barbari ignoranti e che non avessero lasciato alcuna traccia di scrittura! In Campiglia è inoltre stata rinvenuta una pietra di arenaria che presenta nove incisioni lineari parallele, pietra che è stata pubblicata alla pagina 38 del mio libro “La comunità di Fabiano, segni, riti e miti di Indoeuropei, Celti e Ariani sulle alture del Golfo della Spezia” (1994). La didascalia di questa pietra spiega che si tratta di una successione numerica (esattamente novi incisioni) che, se fosse in Irlanda, avrebbe potuto essere interpretata come formata da lettere dell’alfabeto di “Ogham”, divinità celtica della sapienza. Nell’esaminare questa definizione il suddetto prof. Zavararoni ritiene che non sia possibile accettare ciò perché la mancanza della linea di fulcro esclude che si tratti di alfabeto Ogham, ma l’incisione debba essere considerata soltanto nel suo valore simbolico. In termini di calcolo delle probabilità composte ciò avvalora che sia esistita nell’area una antica cultura numerico-pitagorica.
Foto n° 8 – petroglifo inciso con lettere antiche di Navone (Campiglia)
Foto n° 9 – altro petroglifo inciso con lettere antiche di Campiglia.
Foto n° 10 – nove incisioni lineari parallele in Campiglia (alfabeto di Ogham)
La presenza celtica nel territorio.
La presenza del vicino toponimo Schiara (dal celtico skeir, il luogo delle rocce), induce a riconoscere anche celtica la etimologia del toponimo “Bramapane”, dalla radice bram, la pietra fallica. Questo toponimo è assai diffuso, ma finora è stato spiegato con una etimologia italiana dal verbo bramare, avere fame e quindi da riferire alle mucche che bramano l’erba degli alpeggi. Così si legge in un libro di Adolphe Gros, a titolo: <dictionaire étymologique des noms de lieu de la savoie > (1982), ove vengono citate le voci : Brameloup – Bramebiau – Brameboeuf – Bramevache – Bramevaque – Bramefond – Bramefam – Bramafan – Bramapan – Bramepain – Brametourte. Vi si legge: <Il a encore ce sens dans l’italien Bramare, brama, bramoso…les noms évocateur de Bramefaim e de Bramesoif …l’un semble crier famine et l’autre réclamer à boire>. Diversamente nella pubblicazione del Club Alpino Italiano - Sezione di Cuneo - a titolo <Guida dei nomi di luogo delle Alpi Marittime>, di Michelangelo Bruno, si legge che “si pensa che il termine prov.[provenzale] Bram-fam ‘grido di fame’ sia una espressione metaforica assegnata a riferimento di un terreno arido e poco produttivo. In qualche caso tale concetto può essere esteso anche a torrenti che, periodicamente, devastano i campi coltivati”. Si tratta di soluzione impossibili da condividere, anche perché il toponimo francese Brameloup appare come un perfetto toponimo celtico doppio, formato da bram + loup, cioè la “pietra fallica” vicina a una “sorgente con inghiottitoio”, come la celebre “Bocca Lupara” di Pegazzano della Spezia. Si veda l’immagine nel suddetto libro “La Comunità di Fabiano” alla pagina 48. In quest’ultimo sito si ha una fonte in caverna, con inghiottitoio, e vi sono tutto attorno delle nicchie con piccoli piani di appoggio, per contenere sia lucerne in terracotta, sia, in tempi più antichi, per bruciarvi il sacro sevo (sevakne nella lingua osco-umbra). Michelangelo Bruno aggiunge però che bram “riflette invece l’impronta del radicale bar, altura, monte dominante”. Non si contesta che bar stia a significare monte, perché lo conferma anche Claudio Beretta nel libro “I nomi dei fiumi, dei monti, dei siti – Strutture linguistiche preistoriche” (2003-2007) e il toponimo lericino Monti Branzi viene infatti dalla res monte + la res acqua (dal celtico bar + anz) che viene confermato dalla presenza di una sorgente di acqua termale che sgorgava attorno al 20.000 – 15.000 a.C., e che ora sgorga nel Golfo della Spezia. Si vedano sia il mio libro “La preistoria del Caprione” (2006-2007- 2010) sia la planchette di Gianpiero Brozzo “Le acque termo-minerali del Golfo della Spezia”(1998).
Sembra logico affermare che il significato di punta accomuni semanticamente sia la punta del monte sia il fallo, come appare dal termine spina in lingua etrusca e dal termine italico catzum. La etimologia della voce celtica bram deriva però dal Sanscrito bhram, che significa girare intorno, che bene si addice alle cerimonie e alle danze attorno alla pietra sacra della procreazione. Una similitudine semantica appare nel toponimo Zeri (Val di Vara) che deriva dalla voce etrusca ziri , cioè girare attorno alle pietre sacre che si ritrovano in quell’area.
A rinforzare la presenza celtica nel territorio si rinviene presso il mare, in località Fossola, una croce celtica incisa in una piccola roccia. Questa croce è stata pubblicata alla pagina 52 del suddetto libro “La Comunità di Fabiano”. La consacrazione della presenza celtica nel territorio di Lunigiana, prima negata dalle Università di Pisa e di Genova, si è avuta con la pubblicazione del libro sui Celti, legato alla grande mostra europea che si tenne a Venezia, a Palazzo Grassi, nel 1990. In questo volume viene presentato il più bel fodero di spada celtica, proveniente dalla necropoli del Cafaggio (Ameglia)(fig. 225 A). Viene così a cadere uno dei tanti muri del passato (come ad esempio = non vi è megalitismo al di qua delle Alpi) che consisteva nel negare che i Celti Boi avessero attraversato l’Appennino Tosco-emiliano. Alla pagina 227 del suddetto libro si può leggere: “… è databile ai primi decenni del III secolo a.C. e attesta l’interesse dei Boi per una direttrice occidentale che, attraverso il territorio dei Liguri, immetteva dalla Padana all’alto Tirreno attraverso la Lunigiana”. Questa direttrice era però ben più antica, perché era stata utilizzata dai prospettori del rame e dello stagno. Si credeva dapprima che fosse una direttrice solo per lo stagno, di cui l’unica miniera italiana è in Monte Valerio (Piombino), ma più recentemente, da quando si è scoperto che l’ascia dell’uomo del Similaum viene dalla miniera di rame di Campiglia Marittima (Livorno), si è capito che questa via sia stata dapprima anche una direttrice per la ricerca del rame. Si noti che l’ascia di Oëtzi è eguale a quella rinvenuta nel Castellare di Pignone (purtroppo andata perduta, ancorché consegnata dal pittore Bellani alla Sovrintendenza circa vent’anni fa), per cui emerge che vi fosse anche una direttrice ligure per i primi prospettori minerari, in quanto sono emerse miniere di rame anche in Liguria (Labriola e Monte Loreto - 3.500-3.000 a.C.). Si veda il libro “Dal diaspro al bronzo” alle pagine 138 – 141 (1998). Per quanto concerne la scoperta della presenza di toponimi celtici in Lunigiana va detto che quando segnalai ciò alle università di Genova e di Pisa fui preso per visionario. Forte della mia consapevolezza derivante dal Teorema di Bayes sul calcolo delle probabilità composte, inviai a Dublino quattordici radici celtiche da me individuate in Lunigiana. Ricevetti con solerzia una risposta molto semplice, cioè che quanto segnalato era vero.
Il sapere matematico
È innegabile che qualcuno degli antichi fruitori della cava, con determinazione, maestria e pazienza, volle tracciare le simbologie numeriche attraverso le linee parallele, non certo per produttività economica, bensì per affermare una propria weltanshauung. Non è la prima volta che ci si deve confrontare con una tale sapienza matematica espressa con linee parallele. Valga per tutte ricordare l’osso di Ishango (Congo Belga), conservato presso il Museo Reale di Bruxelles, datato al 44.000 a.C. (dicesi quarantaquattromila) contenente i primi “numeri primi”. È stato quindi necessario chiedere aiuto ad uno studioso del settore, il prof. Emilio Spedicato, già docente di matematica presso l’Università di Bergamo, per sapere cosa pensasse della scoperta numerica del Bramapane. Egli ha escluso decisamente che sia da cercare un contatto con la cultura ebraica, ma che ci si debba orientare verso i contatti con i “popoli del mare”. I grandi sconvolgimenti che hanno caratterizzato molti luoghi lungo le coste del Mediterraneo, hanno costretto molti popoli a fuggire con le navi, tentando prima di stabilirsi in Egitto, il luogo ove non si soffriva la carestia. Dopo esserne stati allontanati, hanno vagato nel Mediterraneo, portando il loro sapere dove era stato possibile atterrare, bruciare le navi e insediarvisi.
Per meglio capire l’esistenza di innumerevoli miti in tutti i più antichi popoli della Terra, si possono trovare molti scritti che spiegano i grandi travolgimenti avvenuti nel sistema solare, con effetti di gravi ricadute anche sul nostro pianeta, che è ancora oggi possibile ritrovare in vari miti:
Il numero 10 e il numero 36 nella Numerologia
Molte cose si sono dette e scritte per i numeri che più spesso maneggiamo. Il numero 10 è certamente un numero sacro ai Pitagorici, è il numero della completezza, mentre il successivo numero 11 è il numero che indica la rottura di questa completezza, cioè la rivoluzione rispetto alla “statu quo”. Ed è per questo che certi attentati, vedi quello delle Torri Gemelle, sono stati condotti il giorno 11. Il numero 36 è un numero potente, con molte qualità di successiva elaborazione, che si forma con la sommatoria dei primi otto numeri (1 + 2 + 3 +….+ 7 + 8 = 36). Corrisponde anche al “decano” degli Egizi, cioè la suddivisione del cielo in dieci parti di 36° ciascuna, per un totale di 360°. Ogni decano contiene alcune costellazioni, individuate quindi per il numero di decano che si vuol richiamare. Gli Gnostici Egiziani ritenevano che i decani fossero pieni di poteri divini. Andando oltre, verso Est, si trova che le ore di preghiera dei Mandei nella festa del Dibha Rba erano 36, così come le colonne del palazzo di Dario; 36 sono i sapienti che secondo il Talmud sostengono il mondo, 36 le province cinesi al tempo dell’imperatore della Grande Muraglia. Stranamente questi due potenti numeri sono presenti nella pietra del Bramapane. Ancora il Grande Quaternario dei Pitagorici nasceva dai primi 4 numeri pari ( 2+4+6+8 = 20) e dei primi 4 numeri dispari (1+3+5+7 = 16)(20+16 = 36). In termini di probabilità sembra quindi ipotizzabile che coloro che incisero la pietra fossero stati edotti degli studi dei Pitagorici o, ancora prima, degli Egizi.
La precessione degli equinozi
Per meglio capire l’importanza del messaggio racchiuso dal numero 36, occorre però fare riferimento allo studio del tempo, in senso astronomico. Ogni 26.000 si compie lo spostamento dei poli, che da luogo a quattro fasi di circa sei millenni ciascuna, chiamate stagioni precessionali, a similitudine delle stagioni dell’anno solare (vedi il principio della <precessione degli equinozi>). Vi fu un periodo della vita della Terra, in cui, quando l’orbita terrestre era circolare (e non ellittica come ora) le quattro stagioni precessionali si concludevano in 6.000 x 4 = 24.000 anni. Con l’orbita ellittica il tempo impiegato per una stagione precessionale è divenuto maggiore di 666 anni, risulta cioè di 6.666 anni per ogni stagione precessionale. Ecco perché il numero 666 è da sempre stato ritenuto caotico e degenerativo. Tale sapienza non può quindi essere riferita ai cavatori di Biassa, né alla Bibbia, bensì a popoli come gli Egizi, che avevano profonde cognizioni della storia dell’astronomia del nostro pianeta. Il fatto che essi avessero i “decani” sta a significare che conoscevano quando il moto della Terra era circolare, perché il numero 36 era la decima parte dei 360°. Ecco una spiegazione del perché nelle incisioni della pietra del Bramapane emerge anche il numero 10 (360 : 10 = 36). La base iniziale, quella armonica dovuta ai moti circolari, si è poi modificata e sono quindi sopraggiunti i problemi nei calendari che dovevano adattarsi alla quantità di 365 giorni annui, anziché di 360, e da ciò sarebbero nate le cinque divinità aggiuntive degli Egizi (ancora una volta appare il principio che le civiltà sono state da sempre influenzate dall’astronomia). Le genti antiche, che avevano percepito energeticamente che questi cambiamenti di assetto dell’asse terrestre potevano influire sulla stabilità della struttura della crosta terrestre, segnatamente del mantello, idearono l’utilizzo della energia delle grandi pietre - da ciò il movimento culturale del megalitismo – per cercare di correggere “la precaria armonia del cosmo” (vedi Marisa Grande, alle pagg. 208 e seguenti del suo libro che porta questo stesso titolo).
La spiegazione fornita dagli optimum climatici.
Affidarsi, in termini di probabilità, ai viaggi per mare e alle loro incertezze, per giustificare la presenza di così approfondite conoscenze matematiche nella costa del Bramapane, non parrebbe a prima vista credibile. Bisogna però modificare ciberneticamente le coordinate del nostro cervello attraverso le nuove conoscenze dei paleoclimi. Per essere più vicini alla realtà di allora bisognerà anche tenere conto della variazione del livello del mare, che dal 9.000 al 5.500 si è alzato di circa 110 metri. L’uso dei carotaggi e le datazioni possibili con i nuovi metodi, ancora più sofisticati del radiocarbonio, ci dicono che sono esistiti due optimum climatici; uno medioevale, dal 1.100 al 1.250 in Europa, mentre in Alaska ve ne fu uno dall’850 al 1.200, ed uno precedente dall’anno 1 all’anno 300 d.C.. Nel Mar dei Sargassi i calcoli sulla temperatura del mare registrano lunghi periodi di mare più caldo di 1°, attorno all’anno 1.000. Non sono però questi nuovi calcoli a giocare nella soluzione del rompicapo rappresentato dalla pietra incisa con i numeri 1 – 3 – 6 e 36, che portano poi, attraverso la numerologia, al numero 10 e al numero 666. Occorre esaminare gli optimum climatici della preistoria post-glaciale. Il periodo ottimale viene calcolato fra il 5.500 a.C. e il 2.000 a.C., ma in termini di ottimizzazione della navigazione (oltre che per l’importanza del clima anche per la sicurezza nel tenere le rotte), va considerato il periodo fra il 4.000 a.C. e il 2.500 a.C., nel periodo astronomicamente definito “Orionico”, quando l’apparizione della costellazione “Orione” segnava l’equinozio di primavera e, soprattutto, quando alpha Draconis (la stella Tuban) marcava il Nord con una approssimazione di soli 10’, un errore minimale, non influente di certo nella sicurezza della navigazione. Per questa complessa materia si vedano gli studi di Marisa Grande, espressi nella sua trilogia, e soprattutto nel volume “Dai simboli universali alla scrittura” (2010).
I popoli del mare.
Una parte della storia del Mediterraneo, che è ancora opaca, perché non se ne capiscono ancora le ragioni (cioè se politiche, o militari, o se dettate dalla necessità di sopravvivere) è quella che riguarda i cosiddetti “popoli del mare”. Esistono citazioni storiche fra i monumenti lasciati dai Faraoni Ramses II (XV sec. a.C.), Merenpath (XII sec. a.C.), Ramses III (XII sec. a.C.) e da Ammurapi (sovrano siriaco – XII sec. a.C.) che tutti dovettero difendersi da attacchi di nazioni coalizzate, che soprattutto cercarono di attaccare più volte l’Egitto, per impadronirsene. Tutte le fonti descrivono che i popoli del mare avevano capacità di attacco notevoli, per cui “nessuno poteva resistere alle loro armi” (forse usavano armi di ferro che altri popoli ancora non possedevano). Sotto i loro attacchi finirono distrutte città potenti, come Hatti, Ugarit, Askhelon e Hagor. Secondo gli archeologi inglesi il problema dei “popoli del mare” è, a tutt’oggi, “one of the greatest puzzles of the Mediterranean archaeology”.
L’apporto medianico.
Ho interpellato in proposito il medico energetico Vincenzo Di Benedetto, il quale, medianicamente, ha potuto contattare rappresentanti di popoli venuti dal mare insediatisi nei nostri territori. Egli ha identificato nella zona di Montalto (Piemonte) i Bussu, che venivano dal Caucaso. In un controllo storico è emerso che i Galati che vivevano in Anatolia (popolo di origine celtica) sapevano di un popolo a loro limitrofo che venerava un dio che si chiamava Bussurigio (cioè il re dei Bussu). Nei pressi di Andrate (Piemonte), nel sito astronomicamente orientato di Pian Bres, egli aveva identificato i Sanvli, lì giunti nel 2.700 a.C.. Sempre nella zona di Andrate erano arrivati dal mare di Patrasso (Grecia) gli Ornu nel 4.000 a.C.. Un popolo di quest’ultima etnia si era invece diretto in Patagonia ed il tempo per raggiungere questo luogo lontano era stato doppio di quello per raggiungere Andrate. Un giorno per Andrate e due per la Patagonia. Si pone il problema di come interpretare questo dato temporale fatto conoscere medianicamente. O il giorno era una unità di misura diversa, oppure si deve credere che essi avessero il potere di accelerare il tempo. Entrerebbe qui in gioco la fisica quantistica e il principio enunciato dall’astrofisico Fran de Aquino, del Dipartimento di Fisica della Università di Maragnao (Brasile) della “Kinetic Quantum Theory of Gravity”, cioè la “formula del tutto” ovvero la “formula dell’universo”, invano cercata da Einstein, cioè la “proverbial Theory of Everithing”. La scoperta dell’astrofisico brasiliano, basata sulla diversità fra la massa gravitazionale e la massa inerziale, spiega teoricamente il controllo della gravità e rivela una nuova concettualità dello spazio e presenta la possibilità dei voli aerospaziali: “There is a correlation between gravitational mass and inertial mass, which allows the gravity controll and reveals a new concept of spacecraft and aerospace flight”. Attraverso la modulazione dei campi vibrazionali (poteri mentali) si può avere il controllo della forza di gravità, sia facendola diminuire o azzerare, sia facendola mutare di segno. Questa spiegazione consente di ipotizzare che gli uomini della preistoria, attraverso i poteri mentali di gruppo, potessero creare dei campi frequenziali tali da creare la lievitazione di masse elevate (altrimenti non spiegabili con la fisica classica), oppure potessero muoversi nello spazio-tempo. In un articolo riportato da “Le Scienze”, al numero 449 del gennaio 2006, Juan Maldacena scrive: “La forza di gravità e una delle tre dimensioni dello spazio potrebbero essere illusioni generate da particolari interazioni tra particelle e campi che avvengono in un universo a due dimensioni”. Nell’aprile 2005 un giovane fisico del Politecnico di Milano, Giulio Magli, ha pubblicato il libro “Misteri e scoperte dell’archeoastronomia”. Nell’ultimo capitolo egli cerca di analizzare il problema così enunciato: “Sullo spostamento di grandi blocchi di pietra nell’antichità”. Egli chiude il capitolo che tratta del suddetto argomento con le seguenti parole: <È senza dubbio auspicabile in futuro uno studio più sistematico e meno ‘amatoriale’ delle tecniche di estrazione, trasporto e messa in opera di grandi megaliti nell’antichità. Questo studio può però, secondo me, sperare di avere successo soltanto se la parte ‘tecnica’ del problema verrà trattata alla stessa stregua della parte ‘umana’. Rispettare per capire>. Sagge parole, soprattutto perché pronunciate da un professore ordinario di Meccanica Razionale! Nessuno del settore si sente però di discutere la proposta della “Kinetic Quantum Theory of Gravity” depositata da Fran de Aquino al CERN di Ginevra. Negli studi di archeoastronomia fatti presso Pitigliano (Maremma) assieme al Gruppo Tages, e precisamente nel sito di Insuglietti, il suddetto dr. Vincenzo Di Benedetto è entrato in contatto medianico con il popolo dei Tancri, qui giunti, secondo il loro racconto, nel 4.000 a.C., provenienti da Patrasso (come gli Ornu). Entrambi questi popoli provenivano dall’Anatolia, erano sia pastori sia naviganti, e i loro veggenti avevano previsto dei cataclismi. Questa informazione contribuisce, nel senso del Teorema di Bayes sul calcolo delle probabilità composte, anche se con un peso certamente molto limitato, a ritenere che una delle ragioni per cui si siano verificate le migrazioni dei “popoli del mare” possa essere stata quella di fuggire da grandi cataclismi (a diverse velocità?).
Non è la prima volta che si legge di queste difficili problematiche, soprattutto di quest’ultima, perché i due medici energetici francesi Gilbert Altenbach e Boune Legrais, nel 1983 hanno scritto, a proposito dei luoghi da essi definiti <les hauts lieux vibratoires de la santé>, che qui si possono ottenere i seguenti scopi:
Un racconto medianico di qualche anno fa connesso alla problematica anzidetta.
Alcuni studiosi milanesi chiesero, qualche anno fa, di essere accompagnati a far visita al Castellare di Pignone (Val di Vara - III Millennio a.C.). Nella località indicata dagli indigeni come “Ciane scϋe” (le piane scure) si rinviene un solium elevato, in pietra, utile per traguardare il mezzogiorno, cioè il punto di massima altezza del Sole, anche, e soprattutto, al Solstizio d’Inverno, quando il Sole è più basso e passa con poca elevazione sopra il crinale del monte antistante. Nel gruppo vi erano due medium, marito e moglie. La prima a cercare di sedersi sul ‘solium’ fu la moglie, la quale disse di essere entrata in contatto con una figura poco definita, forse un uomo, per cui chiamò il marito a sedersi nel ‘solium’. Il marito identificò un capo, un re, che aveva al fianco la spada e sul capo un elmo che terminava a forma triangolare. Provò a entrare in contatto medianico e il re disse di essere salito lì per pregare la loro divinità per un pericolo imminente. Alcune navi si stavano avvicinando alla costa ed egli non sapeva se ricacciarle via oppure accoglierle, perché anche il suo popolo veniva dal mare, era stato cacciato dall’Egitto e dopo tante peripezie erano approdati in questa costa e avevano deciso di bruciare le navi. Mentre il marito narrava quanto sopra, provai a interromperlo per chiedere al re quale fosse la divinità che adoravano. La risposta fu immediata: la Luce! Saputo ciò allora chiesi cosa avessero trovato lì e se fossero stati i costruttori del castellare. Disse di no, disse che a costruirlo era stato un popolo precedente, di cui alcuni corpi erano stati da loro ritrovati. Si trattava di esseri molto pelosi, cosparsi di lunghi peli neri. Popoli mediterranei con simili caratteristiche si trovano nel Vicino Oriente.
Ricerche storiche correlate alla narrazione del medium.
Popolazioni con le caratteristiche del pelo lungo nero sono attualmente gli Yazidi e i Curdi. Più antiche popolazioni che hanno potuto raggiungere il Mediterraneo sono i Dravida o Dravidici. Molti non vogliono accettare ciò, ma in Italia si riscontrano gli stessi toponimi della zona da cui proviene la civiltà dravidica, nonché altre coincidenze, e cioè:
Foto n° 12 – la canoa tantrica di Scornia (Lerici)
Foto n° 13 – il Kapala Yantra di Monte Matto
Foto n° 14 sentiero118 cai petroglifo india
Foto n° 15 – il triangolo di geografia sacra.
Foto n° 16 – un elmo triangolare ritrovato a Fermo.
Foto n° 17 - schema del Kapala Yantra
La presenza del vicino toponimo Schiara (dal celtico skeir, il luogo delle rocce), induce a riconoscere anche celtica la etimologia del toponimo “Bramapane”, dalla radice bram, la pietra fallica. Questo toponimo è assai diffuso, ma finora è stato spiegato con una etimologia italiana dal verbo bramare, avere fame e quindi da riferire alle mucche che bramano l’erba degli alpeggi. Così si legge in un libro di Adolphe Gros, a titolo: <dictionaire étymologique des noms de lieu de la savoie > (1982), ove vengono citate le voci : Brameloup – Bramebiau – Brameboeuf – Bramevache – Bramevaque – Bramefond – Bramefam – Bramafan – Bramapan – Bramepain – Brametourte. Vi si legge: <Il a encore ce sens dans l’italien Bramare, brama, bramoso…les noms évocateur de Bramefaim e de Bramesoif …l’un semble crier famine et l’autre réclamer à boire>. Diversamente nella pubblicazione del Club Alpino Italiano - Sezione di Cuneo - a titolo <Guida dei nomi di luogo delle Alpi Marittime>, di Michelangelo Bruno, si legge che “si pensa che il termine prov.[provenzale] Bram-fam ‘grido di fame’ sia una espressione metaforica assegnata a riferimento di un terreno arido e poco produttivo. In qualche caso tale concetto può essere esteso anche a torrenti che, periodicamente, devastano i campi coltivati”. Si tratta di soluzione impossibili da condividere, anche perché il toponimo francese Brameloup appare come un perfetto toponimo celtico doppio, formato da bram + loup, cioè la “pietra fallica” vicina a una “sorgente con inghiottitoio”, come la celebre “Bocca Lupara” di Pegazzano della Spezia. Si veda l’immagine nel suddetto libro “La Comunità di Fabiano” alla pagina 48. In quest’ultimo sito si ha una fonte in caverna, con inghiottitoio, e vi sono tutto attorno delle nicchie con piccoli piani di appoggio, per contenere sia lucerne in terracotta, sia, in tempi più antichi, per bruciarvi il sacro sevo (sevakne nella lingua osco-umbra). Michelangelo Bruno aggiunge però che bram “riflette invece l’impronta del radicale bar, altura, monte dominante”. Non si contesta che bar stia a significare monte, perché lo conferma anche Claudio Beretta nel libro “I nomi dei fiumi, dei monti, dei siti – Strutture linguistiche preistoriche” (2003-2007) e il toponimo lericino Monti Branzi viene infatti dalla res monte + la res acqua (dal celtico bar + anz) che viene confermato dalla presenza di una sorgente di acqua termale che sgorgava attorno al 20.000 – 15.000 a.C., e che ora sgorga nel Golfo della Spezia. Si vedano sia il mio libro “La preistoria del Caprione” (2006-2007- 2010) sia la planchette di Gianpiero Brozzo “Le acque termo-minerali del Golfo della Spezia”(1998).
Sembra logico affermare che il significato di punta accomuni semanticamente sia la punta del monte sia il fallo, come appare dal termine spina in lingua etrusca e dal termine italico catzum. La etimologia della voce celtica bram deriva però dal Sanscrito bhram, che significa girare intorno, che bene si addice alle cerimonie e alle danze attorno alla pietra sacra della procreazione. Una similitudine semantica appare nel toponimo Zeri (Val di Vara) che deriva dalla voce etrusca ziri , cioè girare attorno alle pietre sacre che si ritrovano in quell’area.
A rinforzare la presenza celtica nel territorio si rinviene presso il mare, in località Fossola, una croce celtica incisa in una piccola roccia. Questa croce è stata pubblicata alla pagina 52 del suddetto libro “La Comunità di Fabiano”. La consacrazione della presenza celtica nel territorio di Lunigiana, prima negata dalle Università di Pisa e di Genova, si è avuta con la pubblicazione del libro sui Celti, legato alla grande mostra europea che si tenne a Venezia, a Palazzo Grassi, nel 1990. In questo volume viene presentato il più bel fodero di spada celtica, proveniente dalla necropoli del Cafaggio (Ameglia)(fig. 225 A). Viene così a cadere uno dei tanti muri del passato (come ad esempio = non vi è megalitismo al di qua delle Alpi) che consisteva nel negare che i Celti Boi avessero attraversato l’Appennino Tosco-emiliano. Alla pagina 227 del suddetto libro si può leggere: “… è databile ai primi decenni del III secolo a.C. e attesta l’interesse dei Boi per una direttrice occidentale che, attraverso il territorio dei Liguri, immetteva dalla Padana all’alto Tirreno attraverso la Lunigiana”. Questa direttrice era però ben più antica, perché era stata utilizzata dai prospettori del rame e dello stagno. Si credeva dapprima che fosse una direttrice solo per lo stagno, di cui l’unica miniera italiana è in Monte Valerio (Piombino), ma più recentemente, da quando si è scoperto che l’ascia dell’uomo del Similaum viene dalla miniera di rame di Campiglia Marittima (Livorno), si è capito che questa via sia stata dapprima anche una direttrice per la ricerca del rame. Si noti che l’ascia di Oëtzi è eguale a quella rinvenuta nel Castellare di Pignone (purtroppo andata perduta, ancorché consegnata dal pittore Bellani alla Sovrintendenza circa vent’anni fa), per cui emerge che vi fosse anche una direttrice ligure per i primi prospettori minerari, in quanto sono emerse miniere di rame anche in Liguria (Labriola e Monte Loreto - 3.500-3.000 a.C.). Si veda il libro “Dal diaspro al bronzo” alle pagine 138 – 141 (1998). Per quanto concerne la scoperta della presenza di toponimi celtici in Lunigiana va detto che quando segnalai ciò alle università di Genova e di Pisa fui preso per visionario. Forte della mia consapevolezza derivante dal Teorema di Bayes sul calcolo delle probabilità composte, inviai a Dublino quattordici radici celtiche da me individuate in Lunigiana. Ricevetti con solerzia una risposta molto semplice, cioè che quanto segnalato era vero.
Il sapere matematico
È innegabile che qualcuno degli antichi fruitori della cava, con determinazione, maestria e pazienza, volle tracciare le simbologie numeriche attraverso le linee parallele, non certo per produttività economica, bensì per affermare una propria weltanshauung. Non è la prima volta che ci si deve confrontare con una tale sapienza matematica espressa con linee parallele. Valga per tutte ricordare l’osso di Ishango (Congo Belga), conservato presso il Museo Reale di Bruxelles, datato al 44.000 a.C. (dicesi quarantaquattromila) contenente i primi “numeri primi”. È stato quindi necessario chiedere aiuto ad uno studioso del settore, il prof. Emilio Spedicato, già docente di matematica presso l’Università di Bergamo, per sapere cosa pensasse della scoperta numerica del Bramapane. Egli ha escluso decisamente che sia da cercare un contatto con la cultura ebraica, ma che ci si debba orientare verso i contatti con i “popoli del mare”. I grandi sconvolgimenti che hanno caratterizzato molti luoghi lungo le coste del Mediterraneo, hanno costretto molti popoli a fuggire con le navi, tentando prima di stabilirsi in Egitto, il luogo ove non si soffriva la carestia. Dopo esserne stati allontanati, hanno vagato nel Mediterraneo, portando il loro sapere dove era stato possibile atterrare, bruciare le navi e insediarvisi.
Per meglio capire l’esistenza di innumerevoli miti in tutti i più antichi popoli della Terra, si possono trovare molti scritti che spiegano i grandi travolgimenti avvenuti nel sistema solare, con effetti di gravi ricadute anche sul nostro pianeta, che è ancora oggi possibile ritrovare in vari miti:
- Nel 9.500 a.C. si ritiene che un grande corpo celeste (da 5 a 10 volte più grande del nostro pianeta) sia passato vicino alla Terra e gli abbia ceduto uno dei suoi pianeti, che è divenuto la nostra Luna. In quel contesto è finita l’era glaciale e gli sconvolgimenti avvenuti hanno distrutto la civiltà di Atlantide;
- Nel 7000 a.C. un grande corpo celeste impattò Giove. Il materiale espulso formò l’attuale pianeta Venere, e acque cosmiche raggiunsero la Terra. Marte, che prima era un satellite della Terra, se ne allontanò;
- Dal 7.000 al 3.161 (anno del diluvio biblico) avvennero sconvolgimenti per effetto dei diluvi e Noè si salvò costruendo l’arca. Marte, quando passava in prossimità della Terra, espelleva dai suoi vulcani lava, che raggiungeva la Terra, dando vita a fenomeni tipo Tunguska. Il moto, non ancora circolare, dei pianeti creava eclissi lunari e solari, e si generavano terremoti;
- Dal 5.200 al 4.200 a.C. la Valle di Hunza (Pakistan) fu abbandonata per una catastrofe dovuta ad un asteroide che cadde sulla Terra;
- Nel 3.161 Marte perdette una parte del suo insieme e così si formò Mercurio. In quel periodo Marte passava vicino alla Terra ogni 56 anni e infine le orbite di Marte e Venere divennero circolari (da una comunicazione personale di E. Spedicato);
- Nel 2807 a.C., secondo il gruppo di studio Holocene Impact Working Group, un asteroide colpì la Terra nel mare fra il Madagascar e l’Australia e creando enormi onde di tsunami, alte centinaia di metri, formò il cratere di Burckle.
Il numero 10 e il numero 36 nella Numerologia
Molte cose si sono dette e scritte per i numeri che più spesso maneggiamo. Il numero 10 è certamente un numero sacro ai Pitagorici, è il numero della completezza, mentre il successivo numero 11 è il numero che indica la rottura di questa completezza, cioè la rivoluzione rispetto alla “statu quo”. Ed è per questo che certi attentati, vedi quello delle Torri Gemelle, sono stati condotti il giorno 11. Il numero 36 è un numero potente, con molte qualità di successiva elaborazione, che si forma con la sommatoria dei primi otto numeri (1 + 2 + 3 +….+ 7 + 8 = 36). Corrisponde anche al “decano” degli Egizi, cioè la suddivisione del cielo in dieci parti di 36° ciascuna, per un totale di 360°. Ogni decano contiene alcune costellazioni, individuate quindi per il numero di decano che si vuol richiamare. Gli Gnostici Egiziani ritenevano che i decani fossero pieni di poteri divini. Andando oltre, verso Est, si trova che le ore di preghiera dei Mandei nella festa del Dibha Rba erano 36, così come le colonne del palazzo di Dario; 36 sono i sapienti che secondo il Talmud sostengono il mondo, 36 le province cinesi al tempo dell’imperatore della Grande Muraglia. Stranamente questi due potenti numeri sono presenti nella pietra del Bramapane. Ancora il Grande Quaternario dei Pitagorici nasceva dai primi 4 numeri pari ( 2+4+6+8 = 20) e dei primi 4 numeri dispari (1+3+5+7 = 16)(20+16 = 36). In termini di probabilità sembra quindi ipotizzabile che coloro che incisero la pietra fossero stati edotti degli studi dei Pitagorici o, ancora prima, degli Egizi.
La precessione degli equinozi
Per meglio capire l’importanza del messaggio racchiuso dal numero 36, occorre però fare riferimento allo studio del tempo, in senso astronomico. Ogni 26.000 si compie lo spostamento dei poli, che da luogo a quattro fasi di circa sei millenni ciascuna, chiamate stagioni precessionali, a similitudine delle stagioni dell’anno solare (vedi il principio della <precessione degli equinozi>). Vi fu un periodo della vita della Terra, in cui, quando l’orbita terrestre era circolare (e non ellittica come ora) le quattro stagioni precessionali si concludevano in 6.000 x 4 = 24.000 anni. Con l’orbita ellittica il tempo impiegato per una stagione precessionale è divenuto maggiore di 666 anni, risulta cioè di 6.666 anni per ogni stagione precessionale. Ecco perché il numero 666 è da sempre stato ritenuto caotico e degenerativo. Tale sapienza non può quindi essere riferita ai cavatori di Biassa, né alla Bibbia, bensì a popoli come gli Egizi, che avevano profonde cognizioni della storia dell’astronomia del nostro pianeta. Il fatto che essi avessero i “decani” sta a significare che conoscevano quando il moto della Terra era circolare, perché il numero 36 era la decima parte dei 360°. Ecco una spiegazione del perché nelle incisioni della pietra del Bramapane emerge anche il numero 10 (360 : 10 = 36). La base iniziale, quella armonica dovuta ai moti circolari, si è poi modificata e sono quindi sopraggiunti i problemi nei calendari che dovevano adattarsi alla quantità di 365 giorni annui, anziché di 360, e da ciò sarebbero nate le cinque divinità aggiuntive degli Egizi (ancora una volta appare il principio che le civiltà sono state da sempre influenzate dall’astronomia). Le genti antiche, che avevano percepito energeticamente che questi cambiamenti di assetto dell’asse terrestre potevano influire sulla stabilità della struttura della crosta terrestre, segnatamente del mantello, idearono l’utilizzo della energia delle grandi pietre - da ciò il movimento culturale del megalitismo – per cercare di correggere “la precaria armonia del cosmo” (vedi Marisa Grande, alle pagg. 208 e seguenti del suo libro che porta questo stesso titolo).
La spiegazione fornita dagli optimum climatici.
Affidarsi, in termini di probabilità, ai viaggi per mare e alle loro incertezze, per giustificare la presenza di così approfondite conoscenze matematiche nella costa del Bramapane, non parrebbe a prima vista credibile. Bisogna però modificare ciberneticamente le coordinate del nostro cervello attraverso le nuove conoscenze dei paleoclimi. Per essere più vicini alla realtà di allora bisognerà anche tenere conto della variazione del livello del mare, che dal 9.000 al 5.500 si è alzato di circa 110 metri. L’uso dei carotaggi e le datazioni possibili con i nuovi metodi, ancora più sofisticati del radiocarbonio, ci dicono che sono esistiti due optimum climatici; uno medioevale, dal 1.100 al 1.250 in Europa, mentre in Alaska ve ne fu uno dall’850 al 1.200, ed uno precedente dall’anno 1 all’anno 300 d.C.. Nel Mar dei Sargassi i calcoli sulla temperatura del mare registrano lunghi periodi di mare più caldo di 1°, attorno all’anno 1.000. Non sono però questi nuovi calcoli a giocare nella soluzione del rompicapo rappresentato dalla pietra incisa con i numeri 1 – 3 – 6 e 36, che portano poi, attraverso la numerologia, al numero 10 e al numero 666. Occorre esaminare gli optimum climatici della preistoria post-glaciale. Il periodo ottimale viene calcolato fra il 5.500 a.C. e il 2.000 a.C., ma in termini di ottimizzazione della navigazione (oltre che per l’importanza del clima anche per la sicurezza nel tenere le rotte), va considerato il periodo fra il 4.000 a.C. e il 2.500 a.C., nel periodo astronomicamente definito “Orionico”, quando l’apparizione della costellazione “Orione” segnava l’equinozio di primavera e, soprattutto, quando alpha Draconis (la stella Tuban) marcava il Nord con una approssimazione di soli 10’, un errore minimale, non influente di certo nella sicurezza della navigazione. Per questa complessa materia si vedano gli studi di Marisa Grande, espressi nella sua trilogia, e soprattutto nel volume “Dai simboli universali alla scrittura” (2010).
I popoli del mare.
Una parte della storia del Mediterraneo, che è ancora opaca, perché non se ne capiscono ancora le ragioni (cioè se politiche, o militari, o se dettate dalla necessità di sopravvivere) è quella che riguarda i cosiddetti “popoli del mare”. Esistono citazioni storiche fra i monumenti lasciati dai Faraoni Ramses II (XV sec. a.C.), Merenpath (XII sec. a.C.), Ramses III (XII sec. a.C.) e da Ammurapi (sovrano siriaco – XII sec. a.C.) che tutti dovettero difendersi da attacchi di nazioni coalizzate, che soprattutto cercarono di attaccare più volte l’Egitto, per impadronirsene. Tutte le fonti descrivono che i popoli del mare avevano capacità di attacco notevoli, per cui “nessuno poteva resistere alle loro armi” (forse usavano armi di ferro che altri popoli ancora non possedevano). Sotto i loro attacchi finirono distrutte città potenti, come Hatti, Ugarit, Askhelon e Hagor. Secondo gli archeologi inglesi il problema dei “popoli del mare” è, a tutt’oggi, “one of the greatest puzzles of the Mediterranean archaeology”.
L’apporto medianico.
Ho interpellato in proposito il medico energetico Vincenzo Di Benedetto, il quale, medianicamente, ha potuto contattare rappresentanti di popoli venuti dal mare insediatisi nei nostri territori. Egli ha identificato nella zona di Montalto (Piemonte) i Bussu, che venivano dal Caucaso. In un controllo storico è emerso che i Galati che vivevano in Anatolia (popolo di origine celtica) sapevano di un popolo a loro limitrofo che venerava un dio che si chiamava Bussurigio (cioè il re dei Bussu). Nei pressi di Andrate (Piemonte), nel sito astronomicamente orientato di Pian Bres, egli aveva identificato i Sanvli, lì giunti nel 2.700 a.C.. Sempre nella zona di Andrate erano arrivati dal mare di Patrasso (Grecia) gli Ornu nel 4.000 a.C.. Un popolo di quest’ultima etnia si era invece diretto in Patagonia ed il tempo per raggiungere questo luogo lontano era stato doppio di quello per raggiungere Andrate. Un giorno per Andrate e due per la Patagonia. Si pone il problema di come interpretare questo dato temporale fatto conoscere medianicamente. O il giorno era una unità di misura diversa, oppure si deve credere che essi avessero il potere di accelerare il tempo. Entrerebbe qui in gioco la fisica quantistica e il principio enunciato dall’astrofisico Fran de Aquino, del Dipartimento di Fisica della Università di Maragnao (Brasile) della “Kinetic Quantum Theory of Gravity”, cioè la “formula del tutto” ovvero la “formula dell’universo”, invano cercata da Einstein, cioè la “proverbial Theory of Everithing”. La scoperta dell’astrofisico brasiliano, basata sulla diversità fra la massa gravitazionale e la massa inerziale, spiega teoricamente il controllo della gravità e rivela una nuova concettualità dello spazio e presenta la possibilità dei voli aerospaziali: “There is a correlation between gravitational mass and inertial mass, which allows the gravity controll and reveals a new concept of spacecraft and aerospace flight”. Attraverso la modulazione dei campi vibrazionali (poteri mentali) si può avere il controllo della forza di gravità, sia facendola diminuire o azzerare, sia facendola mutare di segno. Questa spiegazione consente di ipotizzare che gli uomini della preistoria, attraverso i poteri mentali di gruppo, potessero creare dei campi frequenziali tali da creare la lievitazione di masse elevate (altrimenti non spiegabili con la fisica classica), oppure potessero muoversi nello spazio-tempo. In un articolo riportato da “Le Scienze”, al numero 449 del gennaio 2006, Juan Maldacena scrive: “La forza di gravità e una delle tre dimensioni dello spazio potrebbero essere illusioni generate da particolari interazioni tra particelle e campi che avvengono in un universo a due dimensioni”. Nell’aprile 2005 un giovane fisico del Politecnico di Milano, Giulio Magli, ha pubblicato il libro “Misteri e scoperte dell’archeoastronomia”. Nell’ultimo capitolo egli cerca di analizzare il problema così enunciato: “Sullo spostamento di grandi blocchi di pietra nell’antichità”. Egli chiude il capitolo che tratta del suddetto argomento con le seguenti parole: <È senza dubbio auspicabile in futuro uno studio più sistematico e meno ‘amatoriale’ delle tecniche di estrazione, trasporto e messa in opera di grandi megaliti nell’antichità. Questo studio può però, secondo me, sperare di avere successo soltanto se la parte ‘tecnica’ del problema verrà trattata alla stessa stregua della parte ‘umana’. Rispettare per capire>. Sagge parole, soprattutto perché pronunciate da un professore ordinario di Meccanica Razionale! Nessuno del settore si sente però di discutere la proposta della “Kinetic Quantum Theory of Gravity” depositata da Fran de Aquino al CERN di Ginevra. Negli studi di archeoastronomia fatti presso Pitigliano (Maremma) assieme al Gruppo Tages, e precisamente nel sito di Insuglietti, il suddetto dr. Vincenzo Di Benedetto è entrato in contatto medianico con il popolo dei Tancri, qui giunti, secondo il loro racconto, nel 4.000 a.C., provenienti da Patrasso (come gli Ornu). Entrambi questi popoli provenivano dall’Anatolia, erano sia pastori sia naviganti, e i loro veggenti avevano previsto dei cataclismi. Questa informazione contribuisce, nel senso del Teorema di Bayes sul calcolo delle probabilità composte, anche se con un peso certamente molto limitato, a ritenere che una delle ragioni per cui si siano verificate le migrazioni dei “popoli del mare” possa essere stata quella di fuggire da grandi cataclismi (a diverse velocità?).
Non è la prima volta che si legge di queste difficili problematiche, soprattutto di quest’ultima, perché i due medici energetici francesi Gilbert Altenbach e Boune Legrais, nel 1983 hanno scritto, a proposito dei luoghi da essi definiti <les hauts lieux vibratoires de la santé>, che qui si possono ottenere i seguenti scopi:
- pour amplifier les possibilitès paranormales ;
- pour communiquer à distance ;
- pour apporter des énergies vitales pour les combats ;
- pour accéder à une autre dimension ;
- pour régénér la planète ;
- pour permettre à l’humain une évolution plus rapide ;
- pour alimenter les moyens de locomotion des visiteurs de la 4° dimension ;
- pour véhiculer des objets ou se véhiculer eux-memes [a quale velocità?]
Un racconto medianico di qualche anno fa connesso alla problematica anzidetta.
Alcuni studiosi milanesi chiesero, qualche anno fa, di essere accompagnati a far visita al Castellare di Pignone (Val di Vara - III Millennio a.C.). Nella località indicata dagli indigeni come “Ciane scϋe” (le piane scure) si rinviene un solium elevato, in pietra, utile per traguardare il mezzogiorno, cioè il punto di massima altezza del Sole, anche, e soprattutto, al Solstizio d’Inverno, quando il Sole è più basso e passa con poca elevazione sopra il crinale del monte antistante. Nel gruppo vi erano due medium, marito e moglie. La prima a cercare di sedersi sul ‘solium’ fu la moglie, la quale disse di essere entrata in contatto con una figura poco definita, forse un uomo, per cui chiamò il marito a sedersi nel ‘solium’. Il marito identificò un capo, un re, che aveva al fianco la spada e sul capo un elmo che terminava a forma triangolare. Provò a entrare in contatto medianico e il re disse di essere salito lì per pregare la loro divinità per un pericolo imminente. Alcune navi si stavano avvicinando alla costa ed egli non sapeva se ricacciarle via oppure accoglierle, perché anche il suo popolo veniva dal mare, era stato cacciato dall’Egitto e dopo tante peripezie erano approdati in questa costa e avevano deciso di bruciare le navi. Mentre il marito narrava quanto sopra, provai a interromperlo per chiedere al re quale fosse la divinità che adoravano. La risposta fu immediata: la Luce! Saputo ciò allora chiesi cosa avessero trovato lì e se fossero stati i costruttori del castellare. Disse di no, disse che a costruirlo era stato un popolo precedente, di cui alcuni corpi erano stati da loro ritrovati. Si trattava di esseri molto pelosi, cosparsi di lunghi peli neri. Popoli mediterranei con simili caratteristiche si trovano nel Vicino Oriente.
Ricerche storiche correlate alla narrazione del medium.
Popolazioni con le caratteristiche del pelo lungo nero sono attualmente gli Yazidi e i Curdi. Più antiche popolazioni che hanno potuto raggiungere il Mediterraneo sono i Dravida o Dravidici. Molti non vogliono accettare ciò, ma in Italia si riscontrano gli stessi toponimi della zona da cui proviene la civiltà dravidica, nonché altre coincidenze, e cioè:
- civiltà di Harappa (India) = Arabba (Trentino-Alto Adige);
- civiltà di Mohengio-Daro (India) = Moena (Trentino- Alto Adige);
- Luni (fiume e città della Valle dell’Indo) = Luni (città romana della Lunigiana) =
- Luni (centro della Toscana sul fiume Mignone);
- Sarezana (città dell’India) = Sarzana (città della Lunigiana);
- Ascoli (città dell’India) = Ascoli Piceno (città e provincia italiana), Ascoli Satriano (Puglia);
- Simla (località dell’India) = Similaum (Alpi Retiche);
- Canoa tantrica dell’India = canoa tantrica del sito di Scornia (Lerici);
- Agni Hotra (cerimonia dell’India di dar da mangiare al fuoco) = cerimonia della vigilia di Natale in Lunigiana, in cui il più anziano di casa offre da mangiare al fuoco;
- Kapala Yantra (calcolo della latitudine in India) = petroglifo del Monte Matto (Appennino Tosco-Emiliano – provincia di Massa) per il calcolo della latitudine;
- Percorsi di geografia sacra (India) = triangoli di geografia sacra astronomica (Lunigiana);
- petroglifo di Monte Matto con losanga e tridenti = petroglifo di Vijaianagar (Distretto di Hampi – India) con losanga e tridenti.
Foto n° 12 – la canoa tantrica di Scornia (Lerici)
Foto n° 13 – il Kapala Yantra di Monte Matto
Foto n° 14 sentiero118 cai petroglifo india
Foto n° 15 – il triangolo di geografia sacra.
Foto n° 16 – un elmo triangolare ritrovato a Fermo.
Foto n° 17 - schema del Kapala Yantra
Le datazioni certe, fornite dagli scribi dei vari faraoni, sono certamente più tarde di quelle forniti con i suddetti metodi essenzialmente soggettivi, ma sovviene dagli ultimi studi che i prospettori minerari si siano spinti nel Mediterraneo Occidentale per cercare il rame. Un prova ci viene fornita dallo ziqqurat di Monte d’Accodi (Sardegna). In quel sito megalitico, già abitato nel Neolitico Medio (4.500 a. C.), sono giunte popolazioni di cultura mesopotamica che vi hanno costruito l’unico ziqqurat esistente nel Mediterraneo Occidentale (3.000 a.C.). Cosa cercavano i nuovi arrivati via mare? Certamente, in quell’epoca, miniere di rame.
Il ritrovamento del cavaneo.
Questo tipo di costruzioni, (nella foto sopra), chiamate in Liguria “caselle”, nel vicino Caprione sono invece note come “cavanei”, ma in entrambi i casi la loro etimologia è celtica, rispettivamente da cashel (caisseal = a circular stone fort = una costruzione di difesa in pietra di forma rotonda) e da cabhan-cobhan (a hollow = cavità rotonda). Anche se derivano dal periodo armoricano – secondo l’archeologo Nougier, dell’Università di Tolosa, i primi possono essere datati al IV – V Millennio a.C. (pag. 235 del libro “La Preistoria”, 1982) – la loro datazione è impossibile, perché, in caso di rotture, potevano essere ricostruiti con le stesse pietre e nello stesso modo. Soltanto facendo prelievi all’interno si è potuto calcolare una datazione.
Questo tipo di costruzioni, (nella foto sopra), chiamate in Liguria “caselle”, nel vicino Caprione sono invece note come “cavanei”, ma in entrambi i casi la loro etimologia è celtica, rispettivamente da cashel (caisseal = a circular stone fort = una costruzione di difesa in pietra di forma rotonda) e da cabhan-cobhan (a hollow = cavità rotonda). Anche se derivano dal periodo armoricano – secondo l’archeologo Nougier, dell’Università di Tolosa, i primi possono essere datati al IV – V Millennio a.C. (pag. 235 del libro “La Preistoria”, 1982) – la loro datazione è impossibile, perché, in caso di rotture, potevano essere ricostruiti con le stesse pietre e nello stesso modo. Soltanto facendo prelievi all’interno si è potuto calcolare una datazione.
Il ritrovamento del petroglifo a forma fallica. (Nella foto sopra)
Questo inaspettato ritrovamento fornisce la prova dell’esistenza di un elemento che ripropone la forma tipica delle incisioni falliche presenti nel libro di Ausilio Priuli a titolo “Incisioni rupestri nelle Alpi” – schema n° 11, Simboli sessuali maschili - pagina XLV. Lungo la costa peraltro è visibile anche il simbolo vulviforme nella pietra della località “La Croce”, pubblicata nel libro di Ausilio Priuli e Italo Pucci a titolo “Incisioni rupestri e megalitismo in Liguria” (1994). Secondo alcuni studiosi quel tratto di incisione è troppo sottile, ma ci conforta lo studio del prof. Adolfo Zavaroni sulle prime scritte dei Liguri, da lui decrittate e pubblicate in Inghilterra. I tratti di queste incisioni, rinvenute nell’Appennino Tosco-emiliano, sono sottilissimi. Quindi questo non sarebbe un problema per l’accettazione di questa scoperta. Poiché l’analisi petrografica suggerisce che le linee che formano il simbolo fallico siano al 75% di origine naturale, non si può però escludere che non siano state utilizzate dagli antichi abitatori come un dono della Dea Madre, e come tali siano stati oggetto di elaborazione successiva per il completamento di una forma fallica, oggetto quindi di venerazione.
Questo inaspettato ritrovamento fornisce la prova dell’esistenza di un elemento che ripropone la forma tipica delle incisioni falliche presenti nel libro di Ausilio Priuli a titolo “Incisioni rupestri nelle Alpi” – schema n° 11, Simboli sessuali maschili - pagina XLV. Lungo la costa peraltro è visibile anche il simbolo vulviforme nella pietra della località “La Croce”, pubblicata nel libro di Ausilio Priuli e Italo Pucci a titolo “Incisioni rupestri e megalitismo in Liguria” (1994). Secondo alcuni studiosi quel tratto di incisione è troppo sottile, ma ci conforta lo studio del prof. Adolfo Zavaroni sulle prime scritte dei Liguri, da lui decrittate e pubblicate in Inghilterra. I tratti di queste incisioni, rinvenute nell’Appennino Tosco-emiliano, sono sottilissimi. Quindi questo non sarebbe un problema per l’accettazione di questa scoperta. Poiché l’analisi petrografica suggerisce che le linee che formano il simbolo fallico siano al 75% di origine naturale, non si può però escludere che non siano state utilizzate dagli antichi abitatori come un dono della Dea Madre, e come tali siano stati oggetto di elaborazione successiva per il completamento di una forma fallica, oggetto quindi di venerazione.
Le muraglie megalitiche lungo la costa
Circa quaranta anni fa era ancora possibile osservare sul Monte Capri, il più alto della costa delle Cinque Terre, tracce di mura megalitiche e di mirini megalitici. Questi reperti non sono studiati dalle autorità archeologiche, che hanno sentenziato che il megalitismo nelle Cinque Terre è soltanto una suggestiva tesi non avvalorata da dati archeologici. Vero che se non si investono fondi in ricerche, nei secoli futuri si continuerà a sostenere ciò che ha scritto Fabio Negrino alla pagina 177 del libro “Dal Diaspro al Bronzo”, ma oggi l’evento raccapricciante della perdita dell’ascia di rame di Pignone dovrebbe spingere a convincersi che la preistoria del Levante debba essere ristudiata, anche perché nel frattempo l’archeoastronomia (prima considerata una favola della New Age) è stata riconosciuta come una sotto-disciplina dell’archeologia dall’Istituto Italiano di Preistoria e di Protostoria. Oggi, comunque, con l’enorme sviluppo della vegetazione, queste tracce non sono più visibili, salvo addentrarsi nel bosco con le dovute attrezzature individuali e di squadra per il disboscamento. Quelle muraglie dovevano avere funzione difensiva e potrebbero essere assimilabili, in senso temporale, alle strutture del vicino Castellare di Pignone (3.000 a.C.). In ogni caso le nuove scoperte della Costa di Bramapane portano a ritenere, in termini di calcolo delle probabilità composte, che tutti i reperti ritrovati finora lungo la costa debbano essere riconsiderati in maniera olistica.
Foto n° 20 - muraglia megalitica di Monte Capri
Foto n° 21 - mirino megalitico di Monte Capri
Circa quaranta anni fa era ancora possibile osservare sul Monte Capri, il più alto della costa delle Cinque Terre, tracce di mura megalitiche e di mirini megalitici. Questi reperti non sono studiati dalle autorità archeologiche, che hanno sentenziato che il megalitismo nelle Cinque Terre è soltanto una suggestiva tesi non avvalorata da dati archeologici. Vero che se non si investono fondi in ricerche, nei secoli futuri si continuerà a sostenere ciò che ha scritto Fabio Negrino alla pagina 177 del libro “Dal Diaspro al Bronzo”, ma oggi l’evento raccapricciante della perdita dell’ascia di rame di Pignone dovrebbe spingere a convincersi che la preistoria del Levante debba essere ristudiata, anche perché nel frattempo l’archeoastronomia (prima considerata una favola della New Age) è stata riconosciuta come una sotto-disciplina dell’archeologia dall’Istituto Italiano di Preistoria e di Protostoria. Oggi, comunque, con l’enorme sviluppo della vegetazione, queste tracce non sono più visibili, salvo addentrarsi nel bosco con le dovute attrezzature individuali e di squadra per il disboscamento. Quelle muraglie dovevano avere funzione difensiva e potrebbero essere assimilabili, in senso temporale, alle strutture del vicino Castellare di Pignone (3.000 a.C.). In ogni caso le nuove scoperte della Costa di Bramapane portano a ritenere, in termini di calcolo delle probabilità composte, che tutti i reperti ritrovati finora lungo la costa debbano essere riconsiderati in maniera olistica.
Foto n° 20 - muraglia megalitica di Monte Capri
Foto n° 21 - mirino megalitico di Monte Capri
Ipotesi conclusiva.
Preso atto delle precedenti ricerche, in termini di calcolo delle probabilità composte, si ritiene ipotizzabile che:
a) i petroglifi a contenuto numerico possano essere derivati da contatti iniziali dei “popoli del mare” con l’Egitto e con la sua sapienza, e qui giunti con la successiva cacciata dall’Egitto di questi popoli, soprattutto da parte del faraone Merenpath;
b) la lavorazione delle “pietre da selciato” e della lastra antiscivolamento siano state effettuate in epoca a noi vicina (XVIII-XIX secolo) e siano ascrivibili alla nota tradizione dei cavatori di Biassa, in quanto ancora oggi, nel territorio, sono aperte cave di estrazione di materiale lapideo da costruzione, anche se non pregiato, come invece era la tradizione della estrazione del nobile “portoro” a Porto Venere e nell’isola Palmaria. Questa attività costituisce un caso eccezionale, perché finora le cave megalitiche non sono state quasi mai riutilizzate.
c) che il petroglifo a forma fallica possa essere antecedente al periodo dell’arrivo dei popoli del mare, e possa essere considerato legato al periodo del castellare di Pignone.
Proposte per il futuro.
Diffondendo questa scoperta, si spera che altri possano fornire elementi di approfondimento, anche per poter in futuro realizzare un museo etnografico all’aperto legato alle attività di cava e delle tradizioni dei cavatori, nobilitando peraltro la tradizione del popolo di Biassa. Già con lettera del 18 luglio 1993 veniva chiesto all’Assessorato alle Aree Parco della Provincia della Spezia di istituire un Parco Archeologico nelle Cinque Terre, essendo in fase di inquadramento giuridico- amministrativo, ad opera di leggi regionali, il Parco Naturale delle Cinque Terre. Ciò in conseguenza della scoperta dei seguenti reperti:
1) ara sacrificale di Monte Grosso, con coppella;
2) ara sacrificale di Costa del Persico, con nove coppelle;
3) pietra con doppio ombelico in Costa del Persico;
4) pietra con doppio ombelico in Fossola;
5) pietra con doppio ombelico in Monte Grosso;
6) disco solare in Fossola;
7) pietra a cuspide in Costa del Persico;
8) graffiti di Monasteroli;
9) graffiti di Campiglia;
10) trilite di Schiara;
11) muro di mira di Schiara;
12) tholos o tomba orientata di Schiara;
13) fori azimutali di Schiara;
14) fori azimutali di Monte Capri;
15) meridiana a gnomone di Monte Capri;
16) croce azimutale di Monte Capri;
17) allineamenti rituali di Monte Capri;
18) pietra a cuspide di Monte Capri;
19) menhir di Monte Capri;
20) pietra con fori da intaglio, secondo la tecnica preistorica del cuneo bagnato;
21) seggio di Monasteroli.
Mancano in questo elenco:
a) la pietra a uovo, spezzata a metà e orientata Nord-Sud, di Monte Grosso;
b) il dolmen di Monte Grosso, con bisettrice orientata a Sud;
c) il triplice sedile orientato della Valletta di Campiglia;
d) l’allineamento equinoziale della Valletta di Campiglia;
e) la muraglia megalitica di Monte Capri.
Non si capisce perché tutta questa ricchezza ascrivibile al Turismo Culturale o al Turismo di Speciale Interesse (secondo la denominazione inglese) debba rimanere devalorizzato. Ciò non sembra sufficientemente spiegato col fatto che sui crinali delle Cinque Terre non vi siano negozi di souvenir, quindi manca il commercio! Certamente verrebbe incrementata la pressione verticale sul territorio, ma con la costruzione di una galleria di 700 metri che permetta l’uso di una navetta automatica con la Val di Vara, ove parcheggiare autobus e autovetture, il problema verrebbe risolto.
Enrico Calzolari - Semiologo d’ambiente [email protected] (o tramite il form nei vari link "contatti" del Portale enricocalzolari.it o dei relativi Siti)
Daniele Guaianuzzi - libero ricercatore [email protected]
Ultime ricerche
3 - 6 - 9, i numeri potenti di Tesla.
Il grande scienziato-inventore Nikola Tesla ha raccomandato di usare la potenza di questi tre numeri per entrare all'interno dell'energia del Creato. Egli eseguiva spesso per tre volte il medesimo atto, generando stupore e dubbi sulla sua sanità mentale. Ciò corrisponde al detto latino: omne trinum est perfectum! Nel Cristianesimo il potere trinitario è usato negli esorcismi, che devono sempre avvenire "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Così, prima, nei riti di benedizione del cadavere, si eseguivano tre diversi giri, ora però ridotti ad un solo passaggio di asperges con l'acqua benedetta e un solo passaggio di turibolo con l'incenso. Si sono dimenticati i numeri potenti? La massima attenzione di Tesla era rivolta alla ricerca dell'intuizione, come grande via della conoscenza. I numeri potenti dovevano servire per ottenere questo sommo bene, derivante direttamente dal Signore della Vita, Costruttore dell'Universo e quindi conoscitore sommo delle leggi che lo governano. Le scoperte di Tesla, se applicate, liberebbero l'umanità dal problema dell'energia e quindi dall'inquinamento del pianeta! Si tenga conto che egli già fece viaggiare una auto Studebaker, sostituendone il motore con uno elettrico di sua invenzione, che si autoalimentava con i campi elettromagnetici esistenti nell'atmosfera. Alle fermate dei semafori i passanti gli chiedevano perché la sua auto non facesse fumo (ma egli non poteva rispondere perché avrebbe dovuto rivelare il segreto).
BIBLIOGRAFIA
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Calzolari Enrico& Vincenzo Di Benedetto – L’allineamento equinoziale di ‘Pian Bres’ nel territorio di Andrate – Atti del X Convegno Società Italiana di Archeoastronomia – Trinitapoli (Puglia), 2010 – Edizioni La Città del Sole,
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Grande Marisa – La precaria armonia del cosmo – Besaeditrice, Nardlò, 2012
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Zavaroni Adolfo – Il sacro ponte d’Ercole (Il ponte del Diavolo) e le sue iscrizioni religiose e ntiromane degli antichi abitanti del Frignano – Iaccheri, Pavullo, 2012
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Zavaroni Adolfo & Mezzani Stefano – Iscrizioni in antico ligure presso Campiglia (La Spezia) – articolo della rivista RES ANTIQUAE pubblicata dalla Università di Lovanio, con la supervisione del prof. Dominique Briquel, etruscologo della Sorbona di Parigi.