Le pietre incise del Bramapan.
RICERCHE SUL TOPONIMO BRAMAPAM
Nel territorio della provincia della Spezia si riscontrano tre toponimi in “Bramapan”, che nessun glottologo ha finora voluto studiare per il cosiddetto “principio di prudenza”, per cui non ci si può spingere al di là del periodo dominato dalla lingua latina senza cadere nel rischio di errore, per cui la scienza ufficiale è bene che non si pronunci.
La prima obiezione, che espressi ad Augusto Cesare Ambrosi quando ancora era direttore della Biblioteca Civica “Mazzini”, nonché era presidente della Accademia Lunigianese “Capellini”, era che non ci si poteva accontentare di questa posizione ufficiale in una terra che aveva reperti archeologici etnicamente chiari come le statue stele, che garantivano la frequentazione stabile di genti della protostoria nel territorio di Lunigiana. Qualcuno doveva quindi assumersi l’onere di “rompere il ghiaccio” e far uscire il pesce, e se non erano gli uomini rappresentanti della cultura ufficiale a fare ciò, avrebbero dovuto farlo uomini di buona volontà, privi di condizionamenti determinati dalla arcigna difesa dei detentori del potere culturale consolidato, sempre autoreferenziantisi. Nel presentare lo studio sui toponimi della Val Polcevera sul numero 23 del giugno 1995 della rivista etno-antropologica e linguistico-letteraria della cultura Brigasca e delle Alpi Marittime “Il nido d’aquila” (r’ ni d’áigüra) scrivevo: “L’indagine su una valle che ha avuto uno dei primi documenti scritti su questioni di confini, e quindi di toponomastica, appare come una vera e propria scommessa, un rischio, una lastra di ghiaccio sulla quale provare a scivolare, volendo restare in piedi. La presa d’atto di come neanche il Dizionario di Toponomastica UTET, edito nel 1990 con la collaborazione di ben cinque docenti delle università di Torino, Genova, Udine e Padova, abbia voluto trattare e risolvere alcuni fra i toponimi noti in tutto il mondo da secoli, spinge a palesare, con la massima umiltà, le proprie convinzioni, mettendole al servizio della ricerca culturale, affrontando nel contempo il rischio di essere deriso, assieme alla probabilità di fare qualche centro.”
Debbo ringraziare il direttore della rivista Pier Leone Massajoli di aver pubblicato questa premessa nonché la trattazione dei relativi toponimi, suddivisi in due parti, utilizzando anche il successivo numero 24. Oltre ai tre toponimi in Bramapan è presente in territorio di Lerici il toponimo Monti Branzi, che è subito parso collegabile ai precedenti in “bram”. L’importanza di questo toponimo è dovuto alla presenza dei seguenti elementi:
una grande ara o pietra altare a forma di losanga, spezzata in tre parti;
una pietra vulviforme del tipo orizzontale e passante;
una pietra fallica;
una grande pietra a sessola, con foro di entrata in alto e foro di uscita in basso (secondo alcuni medici e secondo alcune donne utilizzabile per il parto);
una grande dolina che, secondo i geologi, nella preistoria era ricca di acqua. Secondo gli attuali geo-biologi e rabdomanti l’acqua è ancora presente nel sottosuolo a livello di (–) 12 metri.
In prossimità della cava dei Branzi è stato rinvenuto “un deposito cristallino calcareo a struttura fibroso-raggiata” fatta di “concrezione alabastrina, caratterizzata da livelli a solfati, testimone di una qualche grotta probabilmente collassata”. Queste concrezioni sono state analizzate dal prof. Roberto Chiari dell’Università di Parma e le acque che possono averle formate, fra il 20 000 ed il 15 000 a.C., si sono rivelate di natura simile a quelle delle acque termali di Bagni di Lucca e di
Montecatini Terme. “Una recentissima analisi delle acque termo-minerali della zona della Spezia mostra inoltre come le sorgenti calde, che tuttora si trovano presso la località Stagnoni, provengano, come acque profonde, dai Monti Branzi, l’elevazione del Caprione che sovrasta il Guercio” (Brozzo G., Le acque termo-minerali del Golfo della Spezia, Luna Editore, 1998). Questo elemento rafforza la identificazione del territorio dei Monti Branzi come area sacra, che poteva esser raggiunta dalle popolazioni che vivevano in basso, nella pianura costiera che esisteva davanti alla Lunigiana nel 20 000/15 000 a.C., quando il livello del mare era 110 metri più basso dell’attuale livello. Siamo inoltre rafforzati in questa convinzione da Seneca, uomo probo e filosofo, che scrive: “Veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi…si venerano le fonti di acqua calda…”.
Dalla suddetta gente si è sviluppato un nuovo DNA, identificato dal professore di genetica dell’Università di Oxford Brian Sykes come “Tara” , una delle “sette figlie di Eva”, da cui deriva il 9% della popolazione mondiale attuale, diffusa nel Mediterraneo occidentale e nelle coste atlantiche di Inghilterra e Scozia. Lo stesso professore discende da questa genia.
Circa l’identificazione di un sito sacro nel toponimo “Bramapan”, costituito dall’attuale Forte Bramapane, posto sulle alture che sovrastano Riomaggiore (Cinque Terre)si rinviene la testimonianza di un noto pittore macchiaiolo, pubblicata dal prof. Massimo Quaini:
“… ha lasciato scritto Telemaco Signorini, a proposito della gente di Riomaggiore, che ad ogni anniversario del patrono S.Giovanni Battista si recava prima dell’alba su monte Bramapane per assistere a uno spettacolo soprannaturale: il sole, al momento di alzarsi, fa tre bellissime capriole, cangiandosi di colore, poi si oscura tanto come fosse tornata la notte, e dopo tre ore di queste evoluzioni ripiglia il suo natural colore e il suo corso” (Quaini M., Porto Venere, il futuro del passato, Pro Loco, 1996). Una simile tradizione si raccoglie anche nel Monte Antola di Genova, alla ricorrenza della festività di S.Giovanni Decollato, che cade il 29 agosto (Pucci I., Culti naturalistici della Liguria Antica, Luna Editore, 1997).
Questo tipo di fenomeno ottico, da me peraltro osservato sia al sorgere sul Bramapane sia al tramonto del solstizio d’estate sul Monte Quiesa (Lucca) è riportato nei resoconti delle apparizioni mariane di fama internazionale, quali Lourdes e Fatima, ma è stato anche da me osservato alla apparizione del quinquennio in Ortola di Massa. La distinzione fra i due tipi di fenomeni è che, mentre l’osservazione della rotazione del Sole al sorgere o al tramonto deriva dalla diversa temperatura degli strati dell’aria attraversati in tangenza dai raggi solari, la rotazione del Sole a mezzogiorno, così come riportato dalle cronache, e così come da me osservato a Ortola di Massa, non ha spiegazione scientifica.
In ogni caso il racconto del pittore, inviato al fratello, docente all’Università di Bologna, contribuisce a rafforzare le osservazioni di elementi sacrali che l’orografia e la geografia ci consentono di poter sperimentare. Dalle cima del forte è possibile osservare un orizzonte di 360°, con il promontorio di Piombino (settore SSE) l’isola d’Elba (settore SSE), le isole Capraia e Gorgona (settore Sud) la Corsica settentrionale, con Capo Corso attorno ai 200° ed a volte anche l’Incudine (bellissimo monte a cuspide) e proseguendo la Provenza (attorno ai 250°/255° a seconda della rifrazione) le Alpi Marittime con il Massiccio dell’Argentera e la bellissima cuspide del Monviso a 290°, nonché il promontorio di Portofino a 300°, in direzione dell’azimuth del tramonto al Solstizio d’Estate. La sacralità della costa fra Porto Venere e Monte Capri (Cinque Terre) è indiscussa, sia per la presenza dei megaliti di Monte Grosso, sia per la presenza della pietra-altare coppellata del Persico (etimologia paleo-umbra da persklum) che presenta uno speciale allineamento sacro con la cuspide dell’isolotto Ferale (dialettalmente a gagiarda) e la cuspide del Monviso. È un vero peccato che non sia stata fatta una relazione su cosa esistesse sul Bramapane prima della costruzione del forte ottocentesco.
Purtroppo è difficile fare ipotesi sul passato, così come è difficile giudicare l’allineamento a 266° (indicatore del tramonto equinoziale secondo l’orografia locale) fra il quadrilite di San Lorenzo al Caprione ed il trilite di Schiara (etimologia celtica da skeir) che sembra passare proprio sul sito dove doveva essere il megalite detto della Madonna, portato al Museo Civico della Spezia prima di fissarne la esatta posizione in loco. La sacralità delle alture della costiera è inoltre accentuata dalla eccezionale testimonianza del biologo svizzero F.W.C. Trafford, che dal vicino Monte della Castellana il giorno 28.3.1869 poté osservare per cinque ore lo spettacolo detto “Amphiorama, ou la vue du Monde des Montagnes de La Spezia. Fenomène inconnu, pour la première fois observé et decrit avec une Carte du Continent Polaire (Zurich, Librairie Orell Fussly, 1874) cioè la visione del mondo riflesso sul cielo, con tracciatura di una carta del polo costruita a partire dal meridiano locale della Spezia. Si viene a determinare quindi una forte pregnanza liturgico-sacrale attorno a questo toponimo, che ha spinto ad ulteriori ricerche in territori che presentino radici etimologiche celtiche ed umbre. Ciò in termini di probabilità composte, e più precisamente in ragione del Teorema di Bayes sulla sommatoria di probabilità favorevoli concernenti lo stesso oggetto.
In Spagna, sulla scorta di un documento dell’anno 981 (et habent terminia de porto qui dicitur Petraficta) si è cercato nell’Alta Garrotxa. È emerso il toponimo Arza di etimologia paleo-umbra, simile al nostro Arzelato di Pontremoli, un rivo de Arzamala attestato nel 960, posto in prossimità di una stele (et pervenit ad ipsa Stela) nonché un Arzia attestato nel 1050 (in loco qui dicunt Arzia). Sono emersi il toponimo Trevo (in ipso colle de Faga vel ad ipso Trevo, 1050) relativo alla divinità eugubina Trebo, il toponimo celtico Magu (campo) presente anche a Lerici, il toponimo Albanya, simile al nostro Albana, la sorgente sita presso il Persico, Figueres, simile ai nostri Figarole, Figarolo ed ai siti genovesi di Lago Figoi e Monte Ficogna (ficla + coni= offerta di torta col buco alla pietra fallica) il più alto santuario di Genova, collocato in meridiano sopra il santuario della Madonna del Gazzo (etimologia da catzum= pietra fallica) caratterizzato dalle grandi pietre bianche a forma di falli. Si è rinvenuto nel territorio di Empordà e Vallespir Orientale il toponimo celtico loop (inghiottitoio, acqua che riesce dopo essersi inabissata, come nel nostro Bocca Lupara della Spezia) nella Cau del Llop a Vilajuïga. Analogo toponimo si è rinvenuto nel paese di Cantallops. Il toponimo eugubino per la “fossa” pero, perom, pedo, come pozzo sacro secco in cui si gettavano i resti dei sacrifici olocausti per non farli profanare dagli animali, si ritrova nel paese di Sant Climent Sescebes, nel sito megalitico denominato Sant d’En Peió che è del tutto simile nella finale accentata al sito di Pejò della nostra Val di Vara, collocato presso Mangia (il luogo ove si mangiavano le carni dei sacrifici, toponimo del tutto simile al Carnea della Bassa Valle). Soprattutto si è rinvenuta l’esistenza di uno scritto a titolo “Le vallon de Montbram”, ove viene riscontrata la presenza di “un monument d’època cèltica” (Dòlmens I Menhirs, 111 monuments megalítics de l’Alt Empordà i Vallespir oriental, Guies del Patrimoni Comarcal, Carles Vallès, Figueres, 1988). Il Vallon de Montbram si trova nel versante francese dei Pirenei Orientali (Rossillion) e nelle indicazione in lingua catalana è denominato “La Vall de Montbram”. Il sito abitato è noto come Lavail ed è dominato da uno sperone di roccia (un piton rocheux qui domine le hameau). La frequentazione del sito è documentata già nel Neolitico. Così si legge in Wikipedia a proposito di Lavail: “Le site de Lavail à été occupée dès le néolithique (presence d’un abri sous roche au dessous du hameau ayant révélé des objets de cette époque)”.
La presenza di un Monte Bram si ritrova nella Val Grana (vallate occitane piemontesi).
Ricercando nella toponomastica dell’Umbria, ove è facile imbattersi in toponimi di origine umbra comuni con la Lunigiana (valga per tutti la serie in persklum, quali Porto del Persico, Valle del Persico e Lama del Persico) si rinvengono i seguenti toponimi, legati al “principio della continuità del sacro” fra la preistoria, la protostoria e il primo cristianesimo:
Santa Maria Bamchiscarionis o Madonna del Sasso o Madonna di Ranco Scarione o Ranco Scarione;
Santa Maria di Cenerente.
Questi stupendi toponimi doppi sono pubblicati alla pagina 320 del libro “Studi e ricerche sui nomi di luogo” a cura di Giovanni Moretti, Alberto Melelli e Antonio Batinti (Edizioni Era Nuova, Spoleto, 1998) e consentono di affermare il principio della continuità del sacro. Cenerente lo permette con la glottologia latina che richiama il luogo delle ceneri, cioè dei sacrifici interamente bruciati, cioè gli olocausti, che in Lunigiana si ritrova sia come Polverara (ara della polvere) sia nei numerosi toponimi in –asco di attestazione ligure, derivanti dalla radice ash, sanscrita, per cenere, che sta ad indicare il “pozzo sacro secco” ove si gettano le ceneri e le ossa incombuste per non farle profanare dagli animali, che non si arrischiano ad entrarvi perché temono di non poter risalire da un buco scavato a forma di fiasco. Alcuni esempi di questi pozzi si ritrovano a Sant’Agata di Puglia ed il più spettacolare è quello sullo sperone di roccia chiamato prêta sandu linze, cioè pietra del Santo Hulenz, cioè la divinità delle Tavole di Gubbio chiamata anche Hule-Holi-Hola. Nel libro “Le tavole di Gubbio e la civiltà degli Umbri” di Augusto Ancillotti e Romolo Cerri (Edizioni Jama, Perugia, 1996) si legge a proposito di Hule: “Non è escluso che nella tradizione locale (“mediterranea”?) questa divinità avesse qualche connessione con l’obelisco o “paletto” che in umbro è stato chiamato spinia”. Questa divinità poteva essere sia maschile sia femminile, come l’etrusca Volthumna o Verthumno.
Il toponimo più ricco di significati per svelare l’opaco bram è però Bamchiscarionis, che va suddiviso nelle due formanti celtiche bram + skeir (in bam si è verifica la caduta della r).
Nessun dubbio sull’etimologia di skeir che significa masso, pietra, e che risulta attestato in Lunigiana nei toponimi Rocchette di Scornia (toponimo doppio italico e celtico relativo alla presenza di pietre) e Menhir di Schiara (anche qui doppia indicazione). Si noti come skeir sia anche rafforzato da una car, per pietra, che rende questo toponimo veramente chiaro. Se si aggiunge poi che il luogo sacro viene indicato come Madonna del Sasso, non vi può essere nessun dubbio, se non quello di persone dotate di preconcetti molto, molto interessati a sviare la ricerca. Va infatti chiarito che illustri studiosi liguri (Caprini e Petracco Sicardi) e stranieri (Kaufmann, Föstermann) hanno finora rifiutato di riconoscere il toponimo ligure Ranzi e Ranzo come derivato da Branzi, riconoscendolo come di origine germanica, ipocoristico (cioè diminutivo) di Rand-so – Rando, cioè da nome di persona. La ricerca è complessa perché studiosi spagnoli ritengono che il toponimo Bram–Eburomagus, che si trova nel territorio abitato dai Celti Cadurques=Catu-turcos=Catturques= Caturques, cioè il cinghiale che combatte (catu = combatte; turc=cinghiale; eburo=cinghiale) significhi appunto luogo del “cinghiale”. Questa pare una semplice speculazione. Un tale valore semantico non appare risolutivo per l’etimologia dei toponimi in bram finora trovati in Lunigiana, terra assai significativa anche per la presenza celtica:
Bramapan;
Teccia di Bram-Pram;
Monti Branzi;
Val Brança (atto del Registrum Vetus del Comune di Sarzana del 28 maggio 1245).
Né la semantica di cinghiale appare risolutiva per i toponimi in bram che si rinvengono in Francia, a Bardonecchia e nelle pendici del Monte Bianco, che assumono le seguenti forme:
Bramafan;
Bramapan (Depart. Du Var);
Bramebiau;
Brameboeuf;
Bramefond;
Brameloup;
Bramepain;
Brametourte
Pointe de Bramanette (elevation m 2945 dans la Commune de Bramans – canton de Lanslebourg.
Il canonico Adolphe Gros, nell’esporre i suddetti toponimi nel suo libro “dictionaire éthimologique des noms de lieu de la Savoie” (Édition des Imprimeries Réunies de Chamberry, 1982) fornisce anche richiami storici:
a parte montis de Braman (1338)
territorium de Bramano (1415)
ruisseau de Bramant (1405)
che non sembrano richiamare il cinghiale.
In ossequio alla “teoria delle isoglosse” di Vettore Pisani si dovrebbe far risalire il toponimo alla radice br che sta per altura. Si vedano in proposito le citazioni proposte da Claudio Beretta nel suo “sistema di radici preistoriche” (Beretta C., I nomi dei fiumi, dei monti, dei siti, Strutture linguistiche preistoriche, Edizioni Hoepli e del Centro Camuno di Studi Preistorici, Milano, 2007):
Brienz (br+anz) nella valle dell’Albula; Bianzone e Berbenno nell’Alta Valtellina, Bronzolo e Veran nell’Alta Val dell’Adige. Sembra doveroso accettare questo significato generale, o meglio non contraddirlo (da punta-altura a punta-pietra) ma in presenza di una così ricca serie di toponimi specializzati, perché doppi, quali il Brameloup (bram+loop= bram + inghiottitoio) o il Bamchiscarionis (bram+skeir= bram+ pietra, cioè un rafforzativo come Rocchette di Scornia) non ci si può accontentare di una semantica generica, ed occorre andare alla ricerca di radici più specifiche e più antiche. Si noti che in Piemonte, nell’inselberg di Rocca Cavour esiste una leggenda relativa al gigante Bram che viene perseguitato da Giove, e quindi si dice che Bram si lamenta perché ha fame (bramafam)! L’inselberg è importantissimo nella preistoria italiana perché conserva una pittura rupestre del 3500 a.C. in cui è rappresentata la costellazione di Cassiopea sopra la testa della shamana (seconda la Sovrintendenza del Piemonte si tratterebbe di un antropomorfo con cappello!). Nell’immagine si possono leggere due personaggi di grado inferiore che si rinvengono anche nella Grotta di Olmeta di Capo Corso (studiata da Grosjean) nonché una serie di punti che sono stati da me interpretati come la Via Lattea, disposti in maniera del tutto simile alle coppelle esterne all’ipogeo di Sas Concas (cultura di Ozieri, 2700 a.c.). Il riferimento ad un gigante richiama il concetto di qualcosa di elevato e rafforza l’etimologia di seguito proposta per bram.
CONCLUSIONI
Si scopre così che nel Sanscrito si ha la voce bhram, che fra i vari significati ha anche i seguenti:
to cause to move or turn round, or revolve, swing;
to circumambulate
che ci riconduce anche alla voce etrusca ziri-zeri che ha dato luogo in Lunigiana al toponimo Zeri, sovrastato dalla Piana degli Ariacci, luogo ricco di elementi preistorici.
Mettendo insieme questi elementi si può ricostruire, con elevate probabilità, che bram è:
il sasso, o pietra, o pitone, a forma appuntita,
attorno alla quale si fanno le deambulazioni sacre,
accanto al quale si possono fare le offerte di farinacei: apan = voce indiana per pane (?) o poni = voce paleo-umbra per farina sacrificale, come nel latino pollen?)
che può essere posto su un monte con ampia visibilità di orizzonte (Mont Bram),
che può essere posto vicino ad una sorgente o a un inghiottitoio (loop)
che può essere stato situato all’interno di una grotta o di un riparo di roccia (Teccia di Bram-Pram).
La confusione effettuata dagli studiosi spagnoli con il cinghiale potrebbe essere agevolmente spiegata con il ricorso alla voce umbra abrof – variante apruf , il verro, cioè il cinghiale, che diviene anche abrons – aprunu – abrunu, che ne assume il significato aggettivale, e che spiega mirabilmente l’appellativo del nostro miglior vino, il Brunello di Montalcino, perché la semantica di cinghiale e di leccio ci fa capire che questo vino viene prodotto in un territorio ricco di cinghiali, perché ricco di piante di leccio (Monte Elcino, elce=leccio) che producono molte ghiande, di cui i cinghiali sono ghiotti! Attraverso la documentazione fornitaci dagli studiosi umbri (Ranco Scarione = sasso) si arriva anche a capire che l’origine del toponimo Ranco-Ranzo può essere fatta risalire alla stessa radice che ha dato luogo a Branz-Branzi, anche se successivamente può essere slittata a forme derivate da un nome di persona.
Nel territorio della provincia della Spezia si riscontrano tre toponimi in “Bramapan”, che nessun glottologo ha finora voluto studiare per il cosiddetto “principio di prudenza”, per cui non ci si può spingere al di là del periodo dominato dalla lingua latina senza cadere nel rischio di errore, per cui la scienza ufficiale è bene che non si pronunci.
La prima obiezione, che espressi ad Augusto Cesare Ambrosi quando ancora era direttore della Biblioteca Civica “Mazzini”, nonché era presidente della Accademia Lunigianese “Capellini”, era che non ci si poteva accontentare di questa posizione ufficiale in una terra che aveva reperti archeologici etnicamente chiari come le statue stele, che garantivano la frequentazione stabile di genti della protostoria nel territorio di Lunigiana. Qualcuno doveva quindi assumersi l’onere di “rompere il ghiaccio” e far uscire il pesce, e se non erano gli uomini rappresentanti della cultura ufficiale a fare ciò, avrebbero dovuto farlo uomini di buona volontà, privi di condizionamenti determinati dalla arcigna difesa dei detentori del potere culturale consolidato, sempre autoreferenziantisi. Nel presentare lo studio sui toponimi della Val Polcevera sul numero 23 del giugno 1995 della rivista etno-antropologica e linguistico-letteraria della cultura Brigasca e delle Alpi Marittime “Il nido d’aquila” (r’ ni d’áigüra) scrivevo: “L’indagine su una valle che ha avuto uno dei primi documenti scritti su questioni di confini, e quindi di toponomastica, appare come una vera e propria scommessa, un rischio, una lastra di ghiaccio sulla quale provare a scivolare, volendo restare in piedi. La presa d’atto di come neanche il Dizionario di Toponomastica UTET, edito nel 1990 con la collaborazione di ben cinque docenti delle università di Torino, Genova, Udine e Padova, abbia voluto trattare e risolvere alcuni fra i toponimi noti in tutto il mondo da secoli, spinge a palesare, con la massima umiltà, le proprie convinzioni, mettendole al servizio della ricerca culturale, affrontando nel contempo il rischio di essere deriso, assieme alla probabilità di fare qualche centro.”
Debbo ringraziare il direttore della rivista Pier Leone Massajoli di aver pubblicato questa premessa nonché la trattazione dei relativi toponimi, suddivisi in due parti, utilizzando anche il successivo numero 24. Oltre ai tre toponimi in Bramapan è presente in territorio di Lerici il toponimo Monti Branzi, che è subito parso collegabile ai precedenti in “bram”. L’importanza di questo toponimo è dovuto alla presenza dei seguenti elementi:
una grande ara o pietra altare a forma di losanga, spezzata in tre parti;
una pietra vulviforme del tipo orizzontale e passante;
una pietra fallica;
una grande pietra a sessola, con foro di entrata in alto e foro di uscita in basso (secondo alcuni medici e secondo alcune donne utilizzabile per il parto);
una grande dolina che, secondo i geologi, nella preistoria era ricca di acqua. Secondo gli attuali geo-biologi e rabdomanti l’acqua è ancora presente nel sottosuolo a livello di (–) 12 metri.
In prossimità della cava dei Branzi è stato rinvenuto “un deposito cristallino calcareo a struttura fibroso-raggiata” fatta di “concrezione alabastrina, caratterizzata da livelli a solfati, testimone di una qualche grotta probabilmente collassata”. Queste concrezioni sono state analizzate dal prof. Roberto Chiari dell’Università di Parma e le acque che possono averle formate, fra il 20 000 ed il 15 000 a.C., si sono rivelate di natura simile a quelle delle acque termali di Bagni di Lucca e di
Montecatini Terme. “Una recentissima analisi delle acque termo-minerali della zona della Spezia mostra inoltre come le sorgenti calde, che tuttora si trovano presso la località Stagnoni, provengano, come acque profonde, dai Monti Branzi, l’elevazione del Caprione che sovrasta il Guercio” (Brozzo G., Le acque termo-minerali del Golfo della Spezia, Luna Editore, 1998). Questo elemento rafforza la identificazione del territorio dei Monti Branzi come area sacra, che poteva esser raggiunta dalle popolazioni che vivevano in basso, nella pianura costiera che esisteva davanti alla Lunigiana nel 20 000/15 000 a.C., quando il livello del mare era 110 metri più basso dell’attuale livello. Siamo inoltre rafforzati in questa convinzione da Seneca, uomo probo e filosofo, che scrive: “Veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi…si venerano le fonti di acqua calda…”.
Dalla suddetta gente si è sviluppato un nuovo DNA, identificato dal professore di genetica dell’Università di Oxford Brian Sykes come “Tara” , una delle “sette figlie di Eva”, da cui deriva il 9% della popolazione mondiale attuale, diffusa nel Mediterraneo occidentale e nelle coste atlantiche di Inghilterra e Scozia. Lo stesso professore discende da questa genia.
Circa l’identificazione di un sito sacro nel toponimo “Bramapan”, costituito dall’attuale Forte Bramapane, posto sulle alture che sovrastano Riomaggiore (Cinque Terre)si rinviene la testimonianza di un noto pittore macchiaiolo, pubblicata dal prof. Massimo Quaini:
“… ha lasciato scritto Telemaco Signorini, a proposito della gente di Riomaggiore, che ad ogni anniversario del patrono S.Giovanni Battista si recava prima dell’alba su monte Bramapane per assistere a uno spettacolo soprannaturale: il sole, al momento di alzarsi, fa tre bellissime capriole, cangiandosi di colore, poi si oscura tanto come fosse tornata la notte, e dopo tre ore di queste evoluzioni ripiglia il suo natural colore e il suo corso” (Quaini M., Porto Venere, il futuro del passato, Pro Loco, 1996). Una simile tradizione si raccoglie anche nel Monte Antola di Genova, alla ricorrenza della festività di S.Giovanni Decollato, che cade il 29 agosto (Pucci I., Culti naturalistici della Liguria Antica, Luna Editore, 1997).
Questo tipo di fenomeno ottico, da me peraltro osservato sia al sorgere sul Bramapane sia al tramonto del solstizio d’estate sul Monte Quiesa (Lucca) è riportato nei resoconti delle apparizioni mariane di fama internazionale, quali Lourdes e Fatima, ma è stato anche da me osservato alla apparizione del quinquennio in Ortola di Massa. La distinzione fra i due tipi di fenomeni è che, mentre l’osservazione della rotazione del Sole al sorgere o al tramonto deriva dalla diversa temperatura degli strati dell’aria attraversati in tangenza dai raggi solari, la rotazione del Sole a mezzogiorno, così come riportato dalle cronache, e così come da me osservato a Ortola di Massa, non ha spiegazione scientifica.
In ogni caso il racconto del pittore, inviato al fratello, docente all’Università di Bologna, contribuisce a rafforzare le osservazioni di elementi sacrali che l’orografia e la geografia ci consentono di poter sperimentare. Dalle cima del forte è possibile osservare un orizzonte di 360°, con il promontorio di Piombino (settore SSE) l’isola d’Elba (settore SSE), le isole Capraia e Gorgona (settore Sud) la Corsica settentrionale, con Capo Corso attorno ai 200° ed a volte anche l’Incudine (bellissimo monte a cuspide) e proseguendo la Provenza (attorno ai 250°/255° a seconda della rifrazione) le Alpi Marittime con il Massiccio dell’Argentera e la bellissima cuspide del Monviso a 290°, nonché il promontorio di Portofino a 300°, in direzione dell’azimuth del tramonto al Solstizio d’Estate. La sacralità della costa fra Porto Venere e Monte Capri (Cinque Terre) è indiscussa, sia per la presenza dei megaliti di Monte Grosso, sia per la presenza della pietra-altare coppellata del Persico (etimologia paleo-umbra da persklum) che presenta uno speciale allineamento sacro con la cuspide dell’isolotto Ferale (dialettalmente a gagiarda) e la cuspide del Monviso. È un vero peccato che non sia stata fatta una relazione su cosa esistesse sul Bramapane prima della costruzione del forte ottocentesco.
Purtroppo è difficile fare ipotesi sul passato, così come è difficile giudicare l’allineamento a 266° (indicatore del tramonto equinoziale secondo l’orografia locale) fra il quadrilite di San Lorenzo al Caprione ed il trilite di Schiara (etimologia celtica da skeir) che sembra passare proprio sul sito dove doveva essere il megalite detto della Madonna, portato al Museo Civico della Spezia prima di fissarne la esatta posizione in loco. La sacralità delle alture della costiera è inoltre accentuata dalla eccezionale testimonianza del biologo svizzero F.W.C. Trafford, che dal vicino Monte della Castellana il giorno 28.3.1869 poté osservare per cinque ore lo spettacolo detto “Amphiorama, ou la vue du Monde des Montagnes de La Spezia. Fenomène inconnu, pour la première fois observé et decrit avec une Carte du Continent Polaire (Zurich, Librairie Orell Fussly, 1874) cioè la visione del mondo riflesso sul cielo, con tracciatura di una carta del polo costruita a partire dal meridiano locale della Spezia. Si viene a determinare quindi una forte pregnanza liturgico-sacrale attorno a questo toponimo, che ha spinto ad ulteriori ricerche in territori che presentino radici etimologiche celtiche ed umbre. Ciò in termini di probabilità composte, e più precisamente in ragione del Teorema di Bayes sulla sommatoria di probabilità favorevoli concernenti lo stesso oggetto.
In Spagna, sulla scorta di un documento dell’anno 981 (et habent terminia de porto qui dicitur Petraficta) si è cercato nell’Alta Garrotxa. È emerso il toponimo Arza di etimologia paleo-umbra, simile al nostro Arzelato di Pontremoli, un rivo de Arzamala attestato nel 960, posto in prossimità di una stele (et pervenit ad ipsa Stela) nonché un Arzia attestato nel 1050 (in loco qui dicunt Arzia). Sono emersi il toponimo Trevo (in ipso colle de Faga vel ad ipso Trevo, 1050) relativo alla divinità eugubina Trebo, il toponimo celtico Magu (campo) presente anche a Lerici, il toponimo Albanya, simile al nostro Albana, la sorgente sita presso il Persico, Figueres, simile ai nostri Figarole, Figarolo ed ai siti genovesi di Lago Figoi e Monte Ficogna (ficla + coni= offerta di torta col buco alla pietra fallica) il più alto santuario di Genova, collocato in meridiano sopra il santuario della Madonna del Gazzo (etimologia da catzum= pietra fallica) caratterizzato dalle grandi pietre bianche a forma di falli. Si è rinvenuto nel territorio di Empordà e Vallespir Orientale il toponimo celtico loop (inghiottitoio, acqua che riesce dopo essersi inabissata, come nel nostro Bocca Lupara della Spezia) nella Cau del Llop a Vilajuïga. Analogo toponimo si è rinvenuto nel paese di Cantallops. Il toponimo eugubino per la “fossa” pero, perom, pedo, come pozzo sacro secco in cui si gettavano i resti dei sacrifici olocausti per non farli profanare dagli animali, si ritrova nel paese di Sant Climent Sescebes, nel sito megalitico denominato Sant d’En Peió che è del tutto simile nella finale accentata al sito di Pejò della nostra Val di Vara, collocato presso Mangia (il luogo ove si mangiavano le carni dei sacrifici, toponimo del tutto simile al Carnea della Bassa Valle). Soprattutto si è rinvenuta l’esistenza di uno scritto a titolo “Le vallon de Montbram”, ove viene riscontrata la presenza di “un monument d’època cèltica” (Dòlmens I Menhirs, 111 monuments megalítics de l’Alt Empordà i Vallespir oriental, Guies del Patrimoni Comarcal, Carles Vallès, Figueres, 1988). Il Vallon de Montbram si trova nel versante francese dei Pirenei Orientali (Rossillion) e nelle indicazione in lingua catalana è denominato “La Vall de Montbram”. Il sito abitato è noto come Lavail ed è dominato da uno sperone di roccia (un piton rocheux qui domine le hameau). La frequentazione del sito è documentata già nel Neolitico. Così si legge in Wikipedia a proposito di Lavail: “Le site de Lavail à été occupée dès le néolithique (presence d’un abri sous roche au dessous du hameau ayant révélé des objets de cette époque)”.
La presenza di un Monte Bram si ritrova nella Val Grana (vallate occitane piemontesi).
Ricercando nella toponomastica dell’Umbria, ove è facile imbattersi in toponimi di origine umbra comuni con la Lunigiana (valga per tutti la serie in persklum, quali Porto del Persico, Valle del Persico e Lama del Persico) si rinvengono i seguenti toponimi, legati al “principio della continuità del sacro” fra la preistoria, la protostoria e il primo cristianesimo:
Santa Maria Bamchiscarionis o Madonna del Sasso o Madonna di Ranco Scarione o Ranco Scarione;
Santa Maria di Cenerente.
Questi stupendi toponimi doppi sono pubblicati alla pagina 320 del libro “Studi e ricerche sui nomi di luogo” a cura di Giovanni Moretti, Alberto Melelli e Antonio Batinti (Edizioni Era Nuova, Spoleto, 1998) e consentono di affermare il principio della continuità del sacro. Cenerente lo permette con la glottologia latina che richiama il luogo delle ceneri, cioè dei sacrifici interamente bruciati, cioè gli olocausti, che in Lunigiana si ritrova sia come Polverara (ara della polvere) sia nei numerosi toponimi in –asco di attestazione ligure, derivanti dalla radice ash, sanscrita, per cenere, che sta ad indicare il “pozzo sacro secco” ove si gettano le ceneri e le ossa incombuste per non farle profanare dagli animali, che non si arrischiano ad entrarvi perché temono di non poter risalire da un buco scavato a forma di fiasco. Alcuni esempi di questi pozzi si ritrovano a Sant’Agata di Puglia ed il più spettacolare è quello sullo sperone di roccia chiamato prêta sandu linze, cioè pietra del Santo Hulenz, cioè la divinità delle Tavole di Gubbio chiamata anche Hule-Holi-Hola. Nel libro “Le tavole di Gubbio e la civiltà degli Umbri” di Augusto Ancillotti e Romolo Cerri (Edizioni Jama, Perugia, 1996) si legge a proposito di Hule: “Non è escluso che nella tradizione locale (“mediterranea”?) questa divinità avesse qualche connessione con l’obelisco o “paletto” che in umbro è stato chiamato spinia”. Questa divinità poteva essere sia maschile sia femminile, come l’etrusca Volthumna o Verthumno.
Il toponimo più ricco di significati per svelare l’opaco bram è però Bamchiscarionis, che va suddiviso nelle due formanti celtiche bram + skeir (in bam si è verifica la caduta della r).
Nessun dubbio sull’etimologia di skeir che significa masso, pietra, e che risulta attestato in Lunigiana nei toponimi Rocchette di Scornia (toponimo doppio italico e celtico relativo alla presenza di pietre) e Menhir di Schiara (anche qui doppia indicazione). Si noti come skeir sia anche rafforzato da una car, per pietra, che rende questo toponimo veramente chiaro. Se si aggiunge poi che il luogo sacro viene indicato come Madonna del Sasso, non vi può essere nessun dubbio, se non quello di persone dotate di preconcetti molto, molto interessati a sviare la ricerca. Va infatti chiarito che illustri studiosi liguri (Caprini e Petracco Sicardi) e stranieri (Kaufmann, Föstermann) hanno finora rifiutato di riconoscere il toponimo ligure Ranzi e Ranzo come derivato da Branzi, riconoscendolo come di origine germanica, ipocoristico (cioè diminutivo) di Rand-so – Rando, cioè da nome di persona. La ricerca è complessa perché studiosi spagnoli ritengono che il toponimo Bram–Eburomagus, che si trova nel territorio abitato dai Celti Cadurques=Catu-turcos=Catturques= Caturques, cioè il cinghiale che combatte (catu = combatte; turc=cinghiale; eburo=cinghiale) significhi appunto luogo del “cinghiale”. Questa pare una semplice speculazione. Un tale valore semantico non appare risolutivo per l’etimologia dei toponimi in bram finora trovati in Lunigiana, terra assai significativa anche per la presenza celtica:
Bramapan;
Teccia di Bram-Pram;
Monti Branzi;
Val Brança (atto del Registrum Vetus del Comune di Sarzana del 28 maggio 1245).
Né la semantica di cinghiale appare risolutiva per i toponimi in bram che si rinvengono in Francia, a Bardonecchia e nelle pendici del Monte Bianco, che assumono le seguenti forme:
Bramafan;
Bramapan (Depart. Du Var);
Bramebiau;
Brameboeuf;
Bramefond;
Brameloup;
Bramepain;
Brametourte
Pointe de Bramanette (elevation m 2945 dans la Commune de Bramans – canton de Lanslebourg.
Il canonico Adolphe Gros, nell’esporre i suddetti toponimi nel suo libro “dictionaire éthimologique des noms de lieu de la Savoie” (Édition des Imprimeries Réunies de Chamberry, 1982) fornisce anche richiami storici:
a parte montis de Braman (1338)
territorium de Bramano (1415)
ruisseau de Bramant (1405)
che non sembrano richiamare il cinghiale.
In ossequio alla “teoria delle isoglosse” di Vettore Pisani si dovrebbe far risalire il toponimo alla radice br che sta per altura. Si vedano in proposito le citazioni proposte da Claudio Beretta nel suo “sistema di radici preistoriche” (Beretta C., I nomi dei fiumi, dei monti, dei siti, Strutture linguistiche preistoriche, Edizioni Hoepli e del Centro Camuno di Studi Preistorici, Milano, 2007):
Brienz (br+anz) nella valle dell’Albula; Bianzone e Berbenno nell’Alta Valtellina, Bronzolo e Veran nell’Alta Val dell’Adige. Sembra doveroso accettare questo significato generale, o meglio non contraddirlo (da punta-altura a punta-pietra) ma in presenza di una così ricca serie di toponimi specializzati, perché doppi, quali il Brameloup (bram+loop= bram + inghiottitoio) o il Bamchiscarionis (bram+skeir= bram+ pietra, cioè un rafforzativo come Rocchette di Scornia) non ci si può accontentare di una semantica generica, ed occorre andare alla ricerca di radici più specifiche e più antiche. Si noti che in Piemonte, nell’inselberg di Rocca Cavour esiste una leggenda relativa al gigante Bram che viene perseguitato da Giove, e quindi si dice che Bram si lamenta perché ha fame (bramafam)! L’inselberg è importantissimo nella preistoria italiana perché conserva una pittura rupestre del 3500 a.C. in cui è rappresentata la costellazione di Cassiopea sopra la testa della shamana (seconda la Sovrintendenza del Piemonte si tratterebbe di un antropomorfo con cappello!). Nell’immagine si possono leggere due personaggi di grado inferiore che si rinvengono anche nella Grotta di Olmeta di Capo Corso (studiata da Grosjean) nonché una serie di punti che sono stati da me interpretati come la Via Lattea, disposti in maniera del tutto simile alle coppelle esterne all’ipogeo di Sas Concas (cultura di Ozieri, 2700 a.c.). Il riferimento ad un gigante richiama il concetto di qualcosa di elevato e rafforza l’etimologia di seguito proposta per bram.
CONCLUSIONI
Si scopre così che nel Sanscrito si ha la voce bhram, che fra i vari significati ha anche i seguenti:
to cause to move or turn round, or revolve, swing;
to circumambulate
che ci riconduce anche alla voce etrusca ziri-zeri che ha dato luogo in Lunigiana al toponimo Zeri, sovrastato dalla Piana degli Ariacci, luogo ricco di elementi preistorici.
Mettendo insieme questi elementi si può ricostruire, con elevate probabilità, che bram è:
il sasso, o pietra, o pitone, a forma appuntita,
attorno alla quale si fanno le deambulazioni sacre,
accanto al quale si possono fare le offerte di farinacei: apan = voce indiana per pane (?) o poni = voce paleo-umbra per farina sacrificale, come nel latino pollen?)
che può essere posto su un monte con ampia visibilità di orizzonte (Mont Bram),
che può essere posto vicino ad una sorgente o a un inghiottitoio (loop)
che può essere stato situato all’interno di una grotta o di un riparo di roccia (Teccia di Bram-Pram).
La confusione effettuata dagli studiosi spagnoli con il cinghiale potrebbe essere agevolmente spiegata con il ricorso alla voce umbra abrof – variante apruf , il verro, cioè il cinghiale, che diviene anche abrons – aprunu – abrunu, che ne assume il significato aggettivale, e che spiega mirabilmente l’appellativo del nostro miglior vino, il Brunello di Montalcino, perché la semantica di cinghiale e di leccio ci fa capire che questo vino viene prodotto in un territorio ricco di cinghiali, perché ricco di piante di leccio (Monte Elcino, elce=leccio) che producono molte ghiande, di cui i cinghiali sono ghiotti! Attraverso la documentazione fornitaci dagli studiosi umbri (Ranco Scarione = sasso) si arriva anche a capire che l’origine del toponimo Ranco-Ranzo può essere fatta risalire alla stessa radice che ha dato luogo a Branz-Branzi, anche se successivamente può essere slittata a forme derivate da un nome di persona.
Dal Forte Bramapane e dal Bivio Bramapane si può vedere il Monviso, il
monte sacro degli antichi Liguri, quando questo popolo abitava anche il
Piemonte e la Lombardia e si spingeva fino alla Spagna.
Se si aggiunge che da lì si poteva vedere il Monte Sagro delle Apuane, la
valenza sacra del sito diviene superlativa per la insistenza nello stesso
luogo di questi elementi:
1) presenza di quarzo bianco (interazioni geomasse/biomasse)
2) visione del sorgere del Sole dalle Alpi Apuane
3) visione del tramonto del Sole sul Monviso
4) fenomeno del Sole che "fa le capriole" all'alba del Solstizio d'Estate,
riscontrabile ancora oggi a causa della rifrazione (i raggi del Sole devono
attraversare valli trasversali successive che hanno differenze di
temperature e quindi distorgono le direzioni dei raggi che avanzano).
monte sacro degli antichi Liguri, quando questo popolo abitava anche il
Piemonte e la Lombardia e si spingeva fino alla Spagna.
Se si aggiunge che da lì si poteva vedere il Monte Sagro delle Apuane, la
valenza sacra del sito diviene superlativa per la insistenza nello stesso
luogo di questi elementi:
1) presenza di quarzo bianco (interazioni geomasse/biomasse)
2) visione del sorgere del Sole dalle Alpi Apuane
3) visione del tramonto del Sole sul Monviso
4) fenomeno del Sole che "fa le capriole" all'alba del Solstizio d'Estate,
riscontrabile ancora oggi a causa della rifrazione (i raggi del Sole devono
attraversare valli trasversali successive che hanno differenze di
temperature e quindi distorgono le direzioni dei raggi che avanzano).
Tutte le foto sono state fatte dallo scopritore Daniele Guaianuzzi, il quale
vuole dedicare questa scoperta ai suoi genitori che non ha più. Egli ha
chiamato questa pietra Vultan, come ricorda da qualche fumetto letto in
giovane età.
Il sito è in forte pendenza, molto friabile, ricco di frammenti di quarzo
bianco.
Per scendere e risalire io ho utilizzato una corda di sicurezza.
In archeologia le pietre con le strisce parallele sono state denominate
come "polissoir" dagli archeologi francesi, perché servivano a ripulire il
filo delle asce preistoriche di selce. In Internet si possono vedere molti
di queste pietre polissoir, ma in questo caso si tratta di altro, perché con
un simile pendio non si possono fare lavori di precisione.
Si tratta quindi di una attività dell'uomo antico rivolta alla "ricerca
della consapevolezza", così come si può vedere nell'archetipo delle mani
realizzate nelle caverne dagli uomini della preistoria.
Poiché Einstein diceva che tutto è cambiato, eccetto il modo di pensare
(everithing is changed, except the way we are thinking) si deve dedurre che
questa attività dell'uomo prestorico nella Costa di Bramapane vada letta
come luogo privilegiato per realizzare un evoluzione, allo stesso modo di
come il grande Cartesio coniò il "cogito ergo sum" (penso quindi sono)!
Ho inviato le immagini ad uno psicologo ed attendo la sua risposta in
merito.
vuole dedicare questa scoperta ai suoi genitori che non ha più. Egli ha
chiamato questa pietra Vultan, come ricorda da qualche fumetto letto in
giovane età.
Il sito è in forte pendenza, molto friabile, ricco di frammenti di quarzo
bianco.
Per scendere e risalire io ho utilizzato una corda di sicurezza.
In archeologia le pietre con le strisce parallele sono state denominate
come "polissoir" dagli archeologi francesi, perché servivano a ripulire il
filo delle asce preistoriche di selce. In Internet si possono vedere molti
di queste pietre polissoir, ma in questo caso si tratta di altro, perché con
un simile pendio non si possono fare lavori di precisione.
Si tratta quindi di una attività dell'uomo antico rivolta alla "ricerca
della consapevolezza", così come si può vedere nell'archetipo delle mani
realizzate nelle caverne dagli uomini della preistoria.
Poiché Einstein diceva che tutto è cambiato, eccetto il modo di pensare
(everithing is changed, except the way we are thinking) si deve dedurre che
questa attività dell'uomo prestorico nella Costa di Bramapane vada letta
come luogo privilegiato per realizzare un evoluzione, allo stesso modo di
come il grande Cartesio coniò il "cogito ergo sum" (penso quindi sono)!
Ho inviato le immagini ad uno psicologo ed attendo la sua risposta in
merito.